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l'impero dei gran mogol 161

volte in quattro millenni, sotto dieci dominatori diversi. Ci si domanda per quale legge fatale e misteriosa una città debba evolversi come qualunque altra cosa viva, e rampollare qua e là sul suo ceppo decrepito, come la pianta che non vuol morire. Forse in nessuna parte del mondo l’archeologo trova un così vario tesoro d’architetture esposte. A Roma, in Egitto, in Grecia, in tutti i luoghi sacri al passato, risorge il fantasma di una civiltà sola che le esumazioni, i restauri, gli studi ci fanno vicina, certa, come una cosa presente. Qui è il caos dell’abbandono e dell’oblio, il convegno di tutte le ruine colossali e del tritume di ruine, un deserto di frantumi, così che l’archeologo ha la vertigine di essere sbalzato a cinquecento, a mille, a tremila anni nell’abisso del tempo: dall’ultimo splendore islamitico dei Gran Mogol al bramanesimo cupo, imponente delle prime costruzioni giaina e pali, nella notte delle origini vediche.

Ma dubito che gli archeologi soffrano di vertigini poetiche: dubito della sensibilità di coloro che sanno. In questa solitudine s’incontrano sovente figure bion-