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l'impero dei gran mogol | 153 |
po calvo sul collo serpentino o di distendere una delle immense ali macabre. Mandre di bufali e di zebù sollevano, voltano la testa indolenti, e falangi di corvi gracchiano sui loro dorsi gibbosi, s’avventurano fino alla bocca per beccarvi i tafani e le mosche. Si entra talvolta in foreste d’alberi enormi, dai tronchi nodosi e contorti: ma tutto è fulvo e riarso anche qui: i rami rivestiti di fronda arida, come le nostre quercie in dicembre, dànno al paesaggio una tinta invernale che stona col cielo implacabilmente estivo. Nella foresta morta spiccano zone di un bel verde biacca: miriadi di pappagalli minuscoli che ricordano le foglie vive, o fasci di brace azzurra e smeraldina: famiglie di pavoni appollaiati sugli alti rami. Poi si esce dalla foresta morta ed ecco ancora la steppa senza fine con i suoi cacti spettrali ed i suoi avvoltoi. Si divora lo spazio, il tempo passa, ma il paesaggio non muta.
È l’ora triste: l’ora in cui il viaggiatore si domanda a quale scopo ha lasciato l’Italia bella, anticipandosi questo paesaggio infernale. Distolgo lo sguardo dallo scenario triste. Siamo nel dining-car; indugiamo