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Un voto alla Dea Tharata-Ku-Wha 71

c’inchinano sorridendo con le due mani alla fronte in saluto indiano.

— I miei bagagli, i miei bagagli!

La memoria, assopita, distratta per poco dallo spettacolo nuovo, si ridesta con un sussulto dolorosissimo.

Siamo al completo nella torricella, noi due e sei indigeni, pellegrini anch’essi verso il tempio della Nuvola.

Ed ecco il tempio.

Si dimentica tutto. Sopra il mare ondeggiante dei cocchi verdi, contro il cielo di turchese, s’innalza la mole titanica tutta d’oro, terrazzi, guglie, cuspidi, scalee sovrapposte in un ammasso babelico che supera, confonde ogni legge di gravità, ogni concetto architettonico della proporzione e della linea; una cosa alta forse tre volte la gran piramide, una cosa che non può essere opera d’uomo.

Non è opera d’uomo. È un macigno caduto dal cielo nel piano infinito dell’Industan, per una stranezza geologica dei cataclismi primitivi. Quando Vichnou ebbe creata la terra, si trovò fra le dita l’avanzo dell’opera sua, l’arrotolò, la gettò a caso nel vuoto, e questo cadde nel piano di Lambahadam, formò il blocco dominante di quattrocento metri il mare di verzura. Gli uomini, nei millenni, lo lavorarono