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I sandali della Diva 53


E l’altro giorno ho letto su un grande quotidiano la colonna di amabile prosa funeraria che la moda consacra agli scomparsi: “La morte di Palmira Zacchi„. Tutto era detto e profilato senza reticenze: le sue origini plebee — figlia d’un fiaccheraio, mi pare, — e le sue prime lezioni a furia di sferzate sulle gambine non ancora decenni e poi l’attitudine, la bravura crescente, la rivelazione, la fortuna strepitosa. E non erano taciuti i nomi grandi che servirono da aureola alla Diva — da Cavour a Radetzky, da Garibaldi a Francesco Giuseppe e la lunga permanenza a Vienna dell’austriacante e il suo fasto radioso nell’aureola imperiale. Poi le giuste nozze col barone Altari, il crepuscolo, la scuola di Parigi, la scuola della Scala, la miseria, la malattia, l’Ospizio (nemmeno l’Ospizio è mancato, a far più completa l’istoria e più classica la parabola), il ricovero dove, sotto il robone bigio dalla targa di metallo numerato, la più che ottuagenaria si dev’essere spenta in una specie d’allucinazione demente.

Ora la creatura di bellezza e di follia è divinamente bella e divinamente felice perchè non è più. Il non essere l’ha ritornata all’eterna giovinezza.

Ma io penso alle ore di lei che conosco e