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quasi godesse d’insistere nei ricordi. E quali e quanti ricordi! Le regioni più favolose, le figure più leggendarie, tutto il mondo si profilava per me, dietro quella testa mal tinta.

Erano presenti ai nostri colloqui un servo in livrea, che sembrava tolto da un armadio, e una vecchia cameriera milanese: la fida Ortensia, che aveva seguita la Diva in tutta la sua carriera luminosa e la consolava ora nel suo raccoglimento troppo signorile di vedova blasonata: la fida Ortensia che si permetteva di consigliare la sua padrona, di contraddirla sovente, di leticare qualche volta affettuosamente con lei, in purissimo dialetto milanese. La giornata mi volava. Dormivo nella camera immensa della Baronessa. Avevano fatto scendere dai soppalchi, appositamente per me, un lettuccio a dondolo, in ferro, memoria di una nipotina del Barone, morta a dieci anni. Cameriera e padrona andavano a gara a spogliarmi, scherzando, ridendo del mio cicaleccio. Poi, già sotto le coltri, mi facevo ripetere dalla Baronessa le cose che più m’avevano colpito. Una certa corsa disperata, in troika, attraverso una foresta d’abeti, sotto la neve che aveva fatto perdere ogni traccia e l’ululo dei lupi sempre più vicini, la storia d’un naufragio sulle coste del Marocco, di notte, dove la ballerina