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Garibaldina | 33 |
S’udivano dall’alto, dall’orlo della buca, le grida di spavento, le invocazioni della famiglia di sopra che domandava notizie dello scomparso e la cagione dell’accaduto.
Era accaduta una cosa strana e semplicissima. Una scintilla del camino aveva carbonizzato la trave del soffitto, minandola come può fare un tarlo, per settimane e settimane, pur lasciandone intatta la superficie. E nell’ora fatale aveva ceduto.
— Mio figlio! mio figlio! Cesarino? Sei vivo?
— Vivo, mamma! Non ti disperare.
Subito tutta la famiglia di sopra fu nella nostra casa. Un dottore, chiamato d’urgenza, giudicò la gamba non grave, ma temibilissima una congestione per lo shock del capitombolo, necessaria l’immobilità assoluta ed il silenzio. Fu improvvisato un letto in questa sala stessa, là, in fondo. E il ferito restò qui tre settimane.
— E lei lo vegliò amorosamente, come nei romanzi d’una volta.
— Proprio, ma non sola. C’era la madre e la sorella che si davano il turno; e mentre noi si vegliava, il padre di lui e mio zio giocavano a carte, bevendo, ciarlando, presi da quella reazione di simpatia improvvisa che segue sovente le avversioni silenziose ed ingiustificate.