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L'altare del passato 3


Triste casa, dove fin dalla soglia s’intuiva l’abbandono, la decadenza, l’orgoglio pertinace, la ristrettezza mal dissimulata.

Quanti giovedì, quante domeniche, trascorse in quelle sale oscure, fra quelle cose tarlate, logore, stinte!

All’ultima parola del còmpito — fatto subito al mattino, sotto l’egida del conte Fiorenzo — si balzava dalla sedia con un grido di sollievo, si prendeva di corsa il lungo corridoio oscuro, si giungeva precipitosi in cucina, a somma desolazione del povero Mini, della povera Ghita affaccendati per colazione.

E per tutto il giorno si cercava d’interpretare a rovescio i rettorici ammonimenti del Libro di Buona Lettura.

Somme nostre delizie — fra le confessabili — l’aizzare la servitù, spennare il pollame nelle capponaie, colpire con il Flobert gli antenati delle vecchie tele, tormentare la zia Ernesta, la maniaca del secondo piano, salire sui solai, e di là, protesi a certe finestrette ovali, lanciare cartocci pieni d’acqua o peggio sulla testa dei passanti.

A mezzodì preciso scoccava la campana per colazione. Allora si lasciava ogni cosa, ci si lavava, ci si ricomponeva per tavola una maschera di dolce ipocrisia.