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Alcina 115

lontanarmi dal malefizio dei suoni e per sentire la frescura notturna ventarmi in viso. Alla quarta metopa scesi due, tre gradi, m’adagiai con le spalle addossate al granito, la nuca ben sorretta da una curva della pietra consunta. Dinanzi m’era la pianura incolore ed il mare incolore, non rivelato che dal riscintillare tremulo della luna, da un lato, obliquo, il sarcofago di Fedra con le figure fatte più visibili dalla luce obliqua. Mi dimenticai per alcuni secondi in quel dolore. La regina seduta con un braccio rigido appoggiato allo sgabello e l’altro braccio inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e dolenti. E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s’addensa tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo, di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contempla sogghignando l’effetto del dardo, l’amore minuscolo come un piccolo demone. Ma l’altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi perseguitava fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca di Sarazate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario.