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figlia di D. Aspremo - Fabiano finto mastro di casa - Serplna serva di D. Aspremo". Devo questa comunicazione al gentilissimo dottor Ulderico Rolandi, il quale m’avverte come i più importanti personaggi, Lisetta, Votafuoglio, D. Aspremo, Fabiano, parlino in dialetto napoletano: solo verso la fine Lisetta ricorre al bergamasco e canta qualche arietta italiana. Strano, perchè l’azione si svolge “in un villaggio di Bologna”.

Che lo Stravagante del maestro Costa uscisse mai di Napoli, non pare: molto più fortunato, il Pazzo glorioso del maestro Cocchi fu ripetuto a Sinigaglia nell’estate del 1754 (Radiciotti, Teatri, musica ecc. in Sinigaglia, ed. Ricordi, 1893, p. 45), a Firenze nel 1755, a Monaco e a Bologna nel ’58 (v. libretti presso il Liceo Musicale di Bologna e il Catalogue Sonneck: da non confondere col Pazzo glorioso attribuito al Bertati, nel 1790). — Di questo dramma così parlò G. Cosentino, a proposito della recita bolognese, senza conoscere l’autore: “Il pazzo glorioso è certo Don Ferrante, specie di Don Chisciotte in quarantesimo, che infatuato delle prodezze d’Orlando, vuol rinnovare le imprese dei paladini d’Ariosto, òli monta il capo un ciurmadore per nome Pasquariello, che la moglie Lisetta gli fa passar per Angelica. Don Ferrante s’innamora di lei, l’altro s’ingelosisce, l’inganno è scoperto” (Un teatro bologn. del s. XVIII, Bol. 1910, pp. 102 e 109-110). L’invenzione è barocca, lo spirito mi pare volgarissimo sul genere dell’avv. Gori, non già del Goldoni.

Nella sc. 3 del I atto, Pasquariello esce sulla scena con uno "scatolone appeso davanti, pieno d’istorie, carte, libri di romanzi, con violino alle mani"; e Lisetta “con tamburo fornito di gnacchere e sonagli da vagabondi canta istorie”: li accompagna un gobbo che porta “al collo” il loro “bagaglio”. Lisetta canta una canzoncina veneziana:

Coss’è, sior canapiolo,
     Cossa voleu da mi?
     Tornè dopo tre dì
     Che no ve vedo.
Andè, che no ve credo,
     Tornè dove sè stà,
     Tornè dalle pettegole,
     Andè, ch’in tante fregole
     Ve mando a far squartar.

Sior scartozin de pevere,
     Più bezzi no gli’ avè,
     E per questo tornè
     Da Momoletta.
Ma chi la fa l’aspetta,
     Tornè dove sè stà,
     Tornè dalle pettegole,
     Andè ch’in tante fregole
     Ve mando a far squartar.

Anche questo è lo stile piuttosto del Gori che del Goldoni, e il nome di Momoletta ci fa ricordare un Intermezzo appunto del Gori nel 1735 (vol. XXVI, p. 56). Sapore goldoniano ha soltanto l'aria di Lisetta nella sc. 4, a. I:

Non son tanto semplicetta
     Qual credete, signor no.
     Or son furba, ed or son schietta.
     Or modesta, ed or svegliata,
     Or mi fingo appassionata,
     Per poter qualche merlotto
     Sempliciotto spiumacchiar.

Fo da dama e da guerriera,
     Son quietona, e son altera,
     Ora grido, ed ora taccio,
     Ora priego, ed or minaccio.
     Basta, basta, son maestra
     E so l’arte di gabbar.