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In Italia il padre Buonafede osava scrivere Commedie filosofiche (i Filosofi fanciulli, 1754: v. Frusta del Baretti, n. 18). Nei nostri teatri d’opera passavano buffamente in ridda filosofi ipocriti (Silvani, 1730 e ’35) immaginari (Bertati, 1772 e Galiani, 1775), confusi (Da Ponte, 1780), impostori (m. Chiavacci, 1784). Una commedia intitolata il Falso filosofo aveva composto il Maggi a Milano (st. 1701); un’altra, il Filosofo immaginario, presentò il Chiari nel 1771 al concorso di Panna; e un Arlequin philosophe inventò nuovi lazzi in uno scenario del Goldoni (1763-64).

Il buon Nardo goldoniano non appartiene alla schiera de’ filosofi enciclopedici, più o meno immersi nello studio delle scienze naturali (Natali, Settecento, Milano, 1929, I, 201), bensì ci rappresenta il cosidetto filosofo nella vita comune, cioè l’uomo di carattere (sul modello più o meno inglese), dall’animo calmo, superiore alle passioni e allo stesso entusiasmo, dallo spirito pronto e dalla soda ragione, di cui qualche lineamento ci aveva già offerto il Goldoni stesso, oltre che in Jacobbe Monduill (Fil. ingl.), nel Cavaliere di buon gusto (1750, vol. V), e ci darà poi nel Cavaliere di spirito (1757, vol. XIV) e nell’Apatista (1758, vol. XV). Questo filosofo onesto di campagna, contadino benestante e non più, che non si vergogna della sua nascita e si adatta volentieri a sposare la cameriera di don Tritemio, la Lesbina, sebbene più innamorata del suo denaro che della sua filosofia, non ha nulla da vedere con quello dell’Intermezzo giovanile scritto nel ’35 (voi. XXVI). Non è un solitario, nè un rustego, nè uno scemo: anzi è anch’esso della simpatica famiglia dei cortesani e lo rivediamo con piacere sulla scena: rappresenta anch’esso il buon senso goldoniano e fa coraggiosamente la sua lezione ai signori barnaboti, agli "affamati con parrucca e spada", a tutti quei cattivi cittadini dei quali “È maggiore l’uscita dell’entrata” (I, 6). Cos’è la nobiltà?”Per me sostegno e dico, - Ed ho la mia ragione, - Che sia la condizione un accidente”. Lesbina è una serva: e per questo? “Se non è nata nobile, - Che cosa importa a me? ecc.” (II, 14). Se ha bellezza e virtù, viva anche la serva! “Servetta graziosa, - Sarai la mia sposa ecc.”. Qui culmina la filosofia sorridente del Settecento; e le note del Galuppi l’accompagnano con una gioia arguta piena pure di sorrisi e di grazia. - Per certe audaci affermazioni il Goldoni ci fa ricordare la Contessina (vol. XXVI), la Pamela (vol. V), i Portentosi effetti della madre natura (vol. XXVIII) e altre note commedie che colpivano di acute punte la vecchia società, prima della censura teatrale (v. L. Falchi, Intendimenti sociali di C. G., Roma, 1907: ma vi è dimenticato il nostro Filosofo).

Personaggio umoristico, o piuttosto macchietta gustosa nei due colloqui con Rinaldo, è anche don Tritemio, padre cocciuto ed egoista che per paura di spendere è pronto a sacrificare od assassinare la propria figlia, come si dice a Venezia. Carina l’aria con cui senza rispondere si sbriga del giovine innamorato: La mia ragione è questa ecc. (I, 3); e l’altra: Io son di tutti amico ecc. (II, 5). La scena nella quale Rinaldo fa conoscere i suoi titoli (II, 4), ci ricorda pure la Contessina. - Anche in questa farsa per musica domina e trionfa Lesbina, una delle cento adorabili servette di Carlo Goldoni: essa salva la padroncina Eugenia, tiene a bada coi suoi vezzi il vecchio don Tritemio e sposa il ricco filosofo. Ci richiama da vicino la Rosina dei