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logo del Groppo o quello recente del Wiel: memorabile l’Elisa del Lalli, nel 1711, musicata dal Ruggeri. Ma come mai non ricordava almeno il Goldoni le Metamorfosi odiamorose del gori, recitate nel 1732 a S. Samuele, e ripetute nell’autunno del ’34?

Si presenta ora una questione di maggior importanza. Dello spettacolo offerto dal Goldoni a S. Samuele nell’ottobre del 1735 noi non abbiamo le prime due parti (l’Accademia e lo scenario della commediola), che di certo non furono mai stampate. Abbiamo la Fondazion di Venezia, ma stampata l’anno dopo, per l’inaugurazione delle recite autunnali del 1736, preceduta da un Prologo in versi, in forma di dialogo tra la Musica, la Commedia e il Genio dell'Adria, di cui il Goldoni non parla affatto. Convien credere che quest’ultima operetta, applaudita nel ’35, servisse anche per l’anno successivo, forse con qualche lieve ritocco, e che l’autore in tale occasione la stampasse, componendo per la nuova recita, in cambio dell’Accademia, il detto Prologo, musicato pure dal Maccari.

Non c’è dubbio che ogni qual volta il Goldoni portò davanti al pubblico le sue idee sulla riforma del teatro, si inspirava all’esempio del Molière (v. Maria Ortiz, Il canone principale della poetica goldoniana, Napoli, 1905, p. II). Nel presente Prologo l’autore cerca di rivendicare i diritti antichi della Commedia e la sua importanza morale contro il predominio tirannico della Musica nei teatri veneziani del suo tempo; e assale la "turba mercenaria" dei cantanti, chiamati impropriamente virtuosi. Ricorda tuttavia il dispregio in cui eran cadute le rappresentazioni comiche, ma quasi per un presagio dei futuri trionfi, dice la Commedia alla Musica: "Non andrai sempre fastosa. - Verrà un dì che l’ orgogliosa - Fronte tua saprò umiliar". E la Musica ribatte: "Verrà un dì, ma intanto fremi". Per ora la conclusione era questa, che la Commedia aveva bisogno, per rialzarsi, della Musica e la Musica stessa, se non voleva tediare gli spettatori, doveva introdurre "ne’ suoi drammi qualche comica azione". Così decideva il Genio dell’Adria, cioè il pubblico veneziano avido di novità, imponendo però che così la Commedia, come la Musica, correggessero i propri difetti.

Io credo che la lettura dell’Adria di Pier Jacopo Martello, che il buon Segretario del Senato Bolognese compose a Roma nel 1714, dopo il ritorno da Parigi, e fece recitare a Venezia nell’antico teatro dei SS. Giovanni e Paolo, edita a Roma nel 1715 e riprodotta proprio nel 1735 a Bologna, nel tomo terzo delle Opere complete, stimolasse nel Goldoni l’idea di mettere in scena le origini di Venezia, sfrondando la pesante azione da ogni ingombro puerile e liberandola dall’imitazione delle favole piscatorie con qualche scenetta realistica di sapore popolare. Certo non mancano ingenuità e puerilità anche nelle scene vernacole, ma vi è tuttavia nella pittura del vecchio Besso, del ragazzo Niso, e in quella specialmente di Dorilla, giovine maestra d’amore, qualche lampo fuggevole della futura arte comica del Goldoni, come già vedemmo negli Intermezzi meno infelici (Olga Marchini-Capasso, Goldoni e la commedia dell’arte, Napoli, 1912, pp. 191-193 e Mario Penna, Il noviziato di C. Goldoni, Torino, 1925, pp. 67-68). L’arrivo nelle isolette della laguna di Adrasto e degli altri cavalieri fuggenti dall’Italia in fiamme, offre occasione al poeta d’esaltare la libertà veneziana ("Liberi semo nati, ‐