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il poema nel 1736, abbellito dai rami del Crespi, rifatti dal Mattioli; e benché riesca noiosissimo ai lettori moderni, piacque molto nel Settecento, e fu ristampato più volte, a Bologna, a Venezia e altrove (Guerrini, l. c., pp. 331-332). Le donne poi di casa Manfredi (la Teresa) e Zanotti (l’Angiola) voltarono, com’è noto, il poema in volgare bolognese (Bologna, Lelio della Volpe, 1740; il Cacasenno fu tradotto da D. Giuseppe Boletti: v. Fantuzzi, Quadrio e Ferri, Bibliografia femminile). E proprio nel 1747 Giuseppe Pichi, "vicario pretorio" a Padova, ne pubblicò per passatempo una versione in dialetto veneziano: Traduzion dal Toscan in Lengua Veneziana de Bertoldo, Bertoldin e Cacasseno (Padova, st. Conzati),
Non ci desta dunque meraviglia l’argomento scelto dal Goldoni. Già l’eroe del Croce era salito sul teatro. I continuatori veneziani della Drammaturgia dell’Allacci ricordano in fatti la Semplicità non è per le Corti, nelle ridicolose facezie di Bertoldino, opera in prosa di A. C. Z., pastore arcade, stampata a Bologna nel 1723; ma a Venezia fin dal 1717 si recitava nel teatro di S. Fantino un Bertoldo, “drama tragicomico” di Francesco Passerini, con musica del Bassani, attinto malamente dal libro popolare. - Il Goldoni non seguì le orme del Croce, bensì lavorò liberamente con la propria fantasia, come dice nella prefazione, volendo porre in scena “tutta la famiglia delli Bertoldi”, ad eccezione della vecchia Marcolfa. Le stesse arguzie cavò principalmente “dalla sua testa”. Piacevole e ardita la scena fra il re e Bertoldo nel primo atto (v. L. Falchi, Intendimenti sociali di C. Goldoni, Roma, 1907, pp. 9-11). Bertoldino è geloso della sua Menghina, ma non è poi tanto sciocco. Ancne qui troviamo la satira del cicisbeismo; e la prima a riderne è la Menghina. Essa si diverte a canzonare lo stesso Bertoldo, già vecchio ma non abbastanza accorto contro le insidie femminili: il quale poi si vendica con armi uguali. Più stupido nella rustica famiglia appare Cacasenno, ancora fanciullo; ma ha pure le sue malizie. Insulsi e scialbi i personaggi della Corte, cominciando dal re Alboino, che s’innamora di Menghina. Si badi però che siamo nel Settecento: la stessa vita di campagna, dipinta artificiosamente come vediamo nelle tele, negli arazzi, nelle decorazioni del tempo, non manca qualche volta, sotto il riso delle note musicali, di grazia e di gaiezza. Le ariette, come confessa il Goldoni nella prefazione, sono tolte talora qua e là. Così la strofetta “Ah che nel dirti addio” (a. II, sc. 5) è del Metastasio, nell’Issipile; i versi “Non ho in petto un core ingrato ecc.”(a. II, se. 10) sono dello Zeno, nell’Alessandro Severo; lo strambotto che canta Mengnina (a. I, sc. 8) è poesia popolare.
Il Wiel, ed è strano, non dice l’autore della musica (v. I teatri musicali veneziani del Settecento, p. 176), che nel libretto in fatti è taciuto. Anche lo Spinelli lo ignora (Bibliografia goldoniana, p. 176). Ma nei Notatorj del Gradenigo, presso il Museo Civico di Venezia, dove si ricorda in data 11 giugno 1730 una recita del Bertoldo “a sette voci e balli” nel teatro Obizzi di Padova, la musica viene attribuita al maestro Vincenzo Ciampi “napoletano”, com’è ormai di conoscenza comune. Il Salvioli e il Musatti sospettarono che il Galuppi ed altri vi collaborassero, ma ciò non è provato (v. Piovano, B. Galuppi, in Rivista Musicale Italiana, 1908, p. 265 e Sonneck, Catalogue ecc. Washington, 1914, p. 217). L’opera che inaugurò probabilmente