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nel 1733 o nel ’34 (v. vol. precedente, pp. 124-125 e p. 56), edito senza data a Venezia e a Bassano; e un finto Marchese si trova nella Conciateste dello stesso, rappresentata colà nel ’35.
Esempi, dunque, a cui ispirarsi il Goldoni ne aveva anche troppi. Nella Contessina, specie di farsa per musica, mise in caricatura l’albagia di un nobile parabolano e della sua degna figliuola, come non ne mancavano a Venezia nella schiera dei barnaboti, ma più ve n’erano in provincia, delineando il solito contrasto, così frequente nella società e nel teatro del Settecento, fra la nobiltà povera o recente, gonfia di superbia, e la nuova borghesia arricchita, fidente di sè e del suo avvenire. Pancrazio, che somiglia al vecchio Pantalone, fingesi marchese Cavromano (e qui satira e parodia aumentano di forza), ottenendo in tal modo per il figlio Lindoro la mano della Contessina. Qualche punta colpisce il cicisbeismo, poiché la damigella, per seguire la gran legge degli usi aristocratici, si provvede di cavalier servente prima del matrimonio, con poca contentezza del buon Lindoro.
Più di trent’anni fa il Maddalena mise in evidenza il presente libretto e lo analizzò col suo fine garbo (Un libretto del Goldoni, Trieste, 1897: dal Corriere Nazionale di Zara). “Certo l’arte vi è scarsa”: concluse. “Sono le grasse risate d’un borghese allegro e di buon senso sulle smorfie e la cascaggine della nobiltà;” ma “specialmente notevole in questo dramma giocoso è la franchezza, la violenza quasi dell’espressione, a cui il Goldoni ci ha davvero poco avvezzi nelle sue commedie”. Il Maddalena vuol alludere alla satira sociale, già avvertita di volo da Ernesto Masi ne’ suoi studi Sulla storia del teatro italiano nel secolo XVIII (Firenze, 1891, pp. 278-279). Strano che non ne parlasse il Falchi nel libro sugli Intendimenti sociali di C. Goldoni (dove s’accontenta di citare in nota il Maddalena: Roma, 1907, p. 14). Artiglio Momigliano riferì in una sua antologia goldoniana (Le opere di C. G. scelte e illustrate, Napoli, 1914, pp. 64-66) la scena 3 del 1 atto e parte della 4 e della 5; e in nota così commenta: “Questo melodramma ha del buono per il modo come sono ritratti la contessa e il padre: quante altre volte ritorneranno queste figure nel teatro goldoniano!” E dell’argomento svolto nel libretto dice: “Semplicissimo, bene impostato, ma svolto senza misura”. Aggiunge poi di aver scelto un melodramma del 1743 “per far vedere che già allora il C. era capace d’una certa finezza artistica, e che quanto v’è di buono nei suoi melodrammi ha gli stessi caratteri delle sue commedie”.
Tolto il maggior numero di personaggi e di scene, cioè la maggior ampiezza di svolgimento, la Contessina non si distingue per l’arte dagli altri Intermezzi: vi rimane la caricatura esagerata dei caratteri, vi rimane il travestimento di Pancrazio in Marchese. I versi, spesso bruttissimi, tradiscono la consueta facilità e negligenza dell’autore. Anche qui meglio di tutti parla il barcaiolo Gazzetta nel suo bel dialetto veneziano. Eppure lo spirito comico, anche se rozzo, qua e là scoppietta, come nelle farse dell’Arte, e ci strappa qualche sorriso. Ma più di tutto ha importanza storicamente la Contessina, ventanni prima del Mattino di Giuseppe Parini, come satira d’una società che si avviava per la china fatale verso la Rivoluzione. Questo libretto, artisticamente molto umile, ci dimostra che l’ingegno del Goldoni non era nè timido nè cieco, in mezzo alla società del Settecento, come troppi credettero e