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La Lugrezia romana in Costantinopoli del Goldoni riuscì pur troppo una sconcia buffonata carnovalesca (“un osceno travisamento della storia” dice Malamani: Nuovi appunti e curiosità goldoniane, Venezia, 1887, p. 215). Questa volta il futuro riformatore ricorse, per far ridere il grosso pubblico del teatro di San Samuele, a quelle sudicerie che da gran tempo erano in uso presso i comici dell’Arte: per fortuna fu l’unica concessione che il Goldoni facesse in vita sua alle tristi abitudini degli attori e al pessimo gusto degli spettatori. La volgarità dell’azione, dei personaggi, del dialogo ci offende oggi e disgusta. Solo Mirmicàina, che si chiamava già Regina nelle calli di Venezia, e vorrebbe diventare imperatrice dei Turchi, ci fa qualche volta sorridere; ed è graziosa l’arietta veneziana e settecentesca alla fine della scena V del I atto: Son nassua con tanta grazia ecc.

Il nome di Albumazar, antico astronomo arabo, che servì già all’Astrologo, nota commedia di G. B. Della Porta (ridotta a scenario dell’Arte nella raccolta del Civico Museo di Venezia, Provenienza Correr, colloc. 1040, n. 13) fu suggerito al Goldoni dal Buini sopra ricordato, che così intitolò un buffo dramma musicale, rappresentato nel 1727 a Bologna (v. Ricci, 430) e a Venezia (Wiel, 89) e nel ’30 a Modena (G. Rossi, I. c., 169-171). Quanto al linguaggio di Maimut, è il solito linguaggio dei Turchi e dei finti Turchi, degli Armeni, dei Levantini in genere nel teatro nostro e straniero, fino dal Cinquecento. 11 Goldoni, che si divertì più tardi a far parlare Abagigi o Musa nei Pettegolezzi delle donne (vol. VI) e Alì, Impresario delle Smirne (vol. XVII), in questa occasione si ricordava principalmente dei balletti turchi di Molière nel Bourgeois gentilhomme e nel Sicilien, e inoltre degli esempi che gli offriva la commedia dell’Arte (nel Settecento a Venezia di Vitt. Malamani, vol. II, La Musa popolare, Torino, 1882, pp. 83-86, v. i due canti intitolati Il mercante armeno e Un turco inamorà).

Nell’Aristide l’autore rasentò senza volere la parodia; qui volle di proposito satireggiare “la mancanza di rispetto alle prescrizioni storiche, la scelta spropositata dei luoghi, i travisamenti grossolani dei fatti veri, gli errati adattamenti di vesti e di linguaggio del dramma di moda”: come dice giustamente la signora Olga Marchini-Capasso (Goldoni e la Commedia dell’Arte, Napoli, 1912, p. 195). Ma lo fece in modo sguaiato: non bastano gli scherzosi echi deile ariette metastasiane, nè l’“arrabbiato” linguaggio turco o il dialetto arguto dei campielli veneziani, nè i pugni e i morsi delle due donne rivali, nè le oscenità, a creare una vera parodia o un dramma “bernesco”, come lo chiamano i contnuatori della Drammaturgia di Lione Allacci, secondo l’uso del tempo, o un’opera comica qualsiasi. In questa volgarissima burletta si accozzano i miseri elementi del teatro dell’Arte, senza la virtù fantastica e pittoresca delle maschere.

Più tardi si dolse a ragione l’autore di aver stampato la Lugrezia. ”Cette pièce" dice in una nota del Catalogo alla fine dei Mémoires (t. Ili, 1787) ne devroit pas être placée dans ce Recueil d’Opéra-Comiques. L’Auteur l’avoit composée pour les Comédiens plusieurs années avant sa réforme, et il a été bien fâché de la voir imprimée”. Ma dopo l’edizione Valvasense, del 1737 (v. intestazione: il libretto esiste presso il Civico Museo Correr e presso la Biblioteca Marciana di Venezia, e nella Biblioteca Mu-