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84 ATTO QUINTO

SCENA IV.

Argenide e detti.

Argenide. Ah crudel, non lo curi il mio perdon cortese?

Sazio non è il tuo core di replicarmi offese.
Di’ che tu m’odii, ingrato, di’ che mi sei nemico.
Non dir ch’io t’abborrisco, non dir quel ch’io non dico.
Tu mi lasciasti, è vero, seguendo un’altra bella;
Ma se fedel tornasti, per te sarei pur quella.
Perchè t’ho amato un giorno, quella son io d’allora;
Tu che un dì mi sprezzasti, vuoi disprezzami ancora?
Se di perdon il nome la tua alterezza offende,
Chiamala pur giustizia, quella che il tuo ti rende.
Sì, questo core è tuo malgrado il rio abbandono:
Quel ch’era tuo sprezzasti, or quel ch’è tuo ti dono.
Usane a tuo talento, di me fa ciò che brami.
Tua morirò, se m’odii; tua viverò, se m’ami.
Lisauro. (Ah, che il rimorso interno colla passion contrasta,
E i suoi contrasti il core a superar non basta).
Zandira. Se alla bontà non cedi, se non ti vince amore,
Chiuso nel sen spietato hai di una belva il core.
Se men ragione avessi d’odiare i tuoi costumi,
Spegner saprei le fiamme della tua Greca ai lumi.
La pietà, la giustizia sarebbe a me bastante,
Quando d’amore ardessi per rinunziar l’amante.
Donna, non creder mai ch’abbia a formar obbietto
Alle tue brame oneste il mio secondo affetto.
(ad Argenide
Lodo la tua costanza, loda il mio labbro stesso
Quell’amor, quella fede che onora il nostro sesso.
Noi servirem d’esempio ai traditori indegni,
Come l’onesto amore 1 ad operar c’insegni.
Tu serbando la fede a un amatore ingrato,
Io rinunziando2 un core ad altro cor legato.

  1. Nel testo: amor.
  2. Ed. Pitteri: rinonziando.