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LA DALMATINA 83

SCENA III.

Zandira e detti.

Zandira. No, traditore indegno, no, che tua non son io;

Tutto soffrir potei quel che a’ miei danni osasti,
Ma sofferir non posso l’amor che mi celasti.
Come potevi, ingrato, arder per me d’affetto,
Del primo amor serbando vive le piaghe in petto?
Ah che a tradire avvezzo con vergognoso eccesso,
Meco tu meditavi il trattamento istesso.
Finger la patria ardisti, scusar ti fece amore,
Scusa trovar non speri la fellonia del cuore.
Se a concepir le fiamme stata foss’io primiera,
Svelar dovea gl’impegni un’anima sincera;
E l’amor mio veggendo deluso e disprezzato,
Per sì giusta cagione, sì che ti avrei lodato.
Ma tu, perfido, fosti il seduttore audace,
Fosti tu che al mio seno rubò la cara pace;
E l’amor tuo primiero contro al dover scordato,
Una seconda vittima sagrificasti al fato.
Chi manca altrui di fede, fede trovar non speri,
Sedur più non mi lascio dai sguardi lusinghieri.
Duolmi d’averti amato, lo dico e lo protesto:
Amami, o mi disama, t’abborro e ti detesto.
Lisauro. Giusta mercè si rende a un perfido, a un ingrato,
Questo novello insulto mancava a un disperato:
Pena mi dava in morte il tuo sperato affetto;
Ora il fin de’ miei giorni con più coraggio aspetto.
Ibraim. Se la ragion ti assiste, se non perdesti il lume,
Cambiar puoi la tua sorte, cambiando il tuo costume.
Serba la data fede, torna all’amor primiero.
Lisauro. Eh la lusinga è vana. Pace sperar non spero.
Deve abborrirmi Argenide, or che un infido io sono;
E se il perdon mi offrisce, non curo il suo perdono.