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rovinarli". Vedasi poi ciò che si narra più avanti della bellissima moglie del principe di Mingrelia, fatta prigioniera e sposata dal re d’Imerette, e delle geste crudeli della impudica Darejam.
Il Goldoni ha voluto soltanto ridipingere coi falsi colori orientali, come già nella fortunata Ircana, il tipo femminile da lui prediletto nel suo teatro: la donna irresistibile che col fascino della bellezza e con le arti vince la superbia degli uomini e li atterra ai suoi piedi. E Mirandolina, l’eterna Mirandolina, che dalla modesta locanda, fiorentina o veneziana che sia, balza sul trono d’Imerette, che dall’umile prosa della commedia si eleva ai versi pomposi della tragicommedia, che ha gettato via il grembialino per mascherarsi da regina, che abbiamo riconosciuto tante volte, nella furente Ircana, nella selvaggia Delmira, nella ipocrita Lavinia, nella potente Semiramide, e riconosciamo nell’astuta e ambiziosa Tamar. E la donna che trionfa nel Settecento, da Versailles a Pietroburgo, che domina col suo sorriso di sfida nel teatro di Carlo Goldoni.
Son beni miei vezzi, lusinghe e sguardi: (fine atto I)
dice Tamar, e se ne vale perfino a sedurre l’animo stesso del proprio genitore.
Dicasi a nostra gloria, abbiam noi donne
Tutto il poter sugli animi virili:
così conclude nell’ultima scena. Che cosa potevano opporre i signori rusteghi?
Ma nemmeno le gentili dame veneziane, a cui si raccomandava l’autore, ebbero la virtù di salvare sulle scene la Giorgiana. Se qualche barlume di vita traluce qua e là nel personaggio di Tamar, tutti gli altri sono veri propri manichini mossi a caso dal gran macchinista, e il loro insopportabile linguaggio, in disgraziati versi endecasillabi, ci suona più falso e più goffo che mai. Anche storicamente nessun pregio ha l’ultima tragicommedia di Carlo Goldoni. Appena un accento di odio contro i tiranni, comune nella tragedia italiana del Settecento, molto prima dell’Alfieri. "Dadian rispetto" dichiara Abchar:
È mio Re, mio sovrano, io suo Visire.
Ma abborrisco i tiranni, e ingiusto io trovo
Che con vani pretesti accrescer tenti
Coll’altrui danno la ricchezza e i stati. (atto I. sc. 4)
E nella scena seguente:
Giovine è ancora, e gioventù l’inganna,
Presumendo sia tutto ad un monarca
Lecito in terra, e che sul regio capo
Non comandi onestà, natura e il Cielo.
E nella scena sesta del secondo atto:
Anche i monarchi
Soggetti sono d’onestà alle leggi.
E son vindici i Dei de’ torti umani.
Lo stesso Macur ha uno scatto contro gli avidi ministri:
So che del regno d’Imerette i grandi
Spoglian del meglio gl’infelici, e ad essi
Credon tutto dovuto, e sotto il piede
Pongonsi l’onestà.