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472 ATTO TERZO

SCENA VI.

Macur e detti.

Macur. Ah! signore, che fai che fuor non esci

Coll’armate tue squadre? Hanno i nemici
Penetrato i ripari, e se respinti
Non gli avessero i tuoi, te li vedresti
Venir fastosi alle tue tende intorno.
Dadian. Tanto ardir? tal baldanza? Empi, cadrete
Vittima del mio sdegno. Ah! non s’ascolti
L’importuna pietà; mori tu prima:
Paga col sangue tuo l’ardir del padre.
Tamar. (Oh mie vane lusinghe! oh inutil labbro!)
Macur. Perchè farla morir? Perchè, signore,
Se donata me l’hai, non far ch’io l’abbia?
Tamar. Deh! signor, questo sia l’ultimo dono,
Che di chiederti ardisco. Ah! non volere
Preda farmi d’un vil. Non sia mai detto,
Che chi piacque al sovrano, abbia a cadere
Nelle man della plebe. Ah! sì, questi occhi
Giunsero a penetrar nel più bel seno
Il più tenero cor. Son dessi ancora,
Ma tu quel più non sei. Salvami almeno,
Se la vita non vuoi, l’onor, la fama.
S’io son dell’ira tua scopo innocente,
Fammi dunque morir.
Dadian.   (Principia, o core,
A indurir nello sdegno). Olà! trafitto
Sia di Tamar il seno.
(alte Guardie, quali 1 si guardano fra loro
Tamar.   Alme guerriere,
Chi avrà di voi tanta viltade in petto
Per trafiggere il sen d’umil donzella?
(le Guardie si ritirano un poco

  1. Così il testo.