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LA BELLA GIORGIANA 471
Non dirassi, s’io muoio: il pio sovrano,

D’Imerette il buon Re, Tamar trafisse;
Che capace non è, finch’è in se stesso
Un monarca, nutrir sì vil pensiero.
Si dirà: l’infelice a morte tratta
Fu dal maligno spirto di vendetta,
Che le bell’alme sfigurar procura.
Chi mai detto l’avria, che il più avveduto
Re della terra, il più clemente e umano,
La porta aprisse entro al suo cuore, all’empio
Spirito seduttor? Deh! il Ciel volesse,
Che il mio sangue, signor, recar la pace
Potesse al regno tuo, piacesse ai Numi
Che il morir mio dar ti potesse aita:
Che pregarti vorrei vibrar tu stesso
Nel mio seno il tuo ferro. Ah! pensa, o Sire,
Che se credi per me quest’armi mosse,
Quanto infierisci più, più a lor t’esponi.
Chi sa che mezzo non foss’io di pace?
Chi sa che al genitor trar non potessi
Di pugno il ferro? Ah! con chi parlo? Il veggio,
Dadian non m’ascolta. A un Rege io parlo
Che non è quel di pria. Dov’era in prima
La pietade, l’amore, il loco han preso
E lo sdegno e il furor. Fin dal sembiante
Sparito è il bel seren. Chi mai quegli occhi
Ad un tratto cambiò? Dov’è quel riso
Consolator che la speranza imprime?
Oh violenza d’affetti! Oh vil natura,
Suddita di passione! Ah! vieni, o morte,
Toglimi dal mirar cangiato il volto
Del mio Re, del mio Nume, in spettro, in ombra.
Dadian. (Oh infelice mio cor! qual strazio fanno
Di te l’ira e l’amor?)
Tamar.   Calmato ei sembra.