Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1927, XXV.djvu/427


423


nessun modo a infondere un soffio animatore in quei fantocci di cartapesta. Nicotri ricorda invano la furente Ircana, chè i trionfi delle tre Persiane non tornarono più. Troppo inverosimile, troppo ingenua l’azione. Anche le lezioni d’astronomia, diremo così, che annoiarono il buon pubblico, non si elevano al di sopra del puerile teatro del Chiari. Un personaggio del Chiari sembra pure il ridicolo Sidone. Nè il verso martelliano portò questa volta fortuna.

Eppure storicamente queste tragicommedie goldoniane non sono senza importanza. Anche se Zoroastro manca d’ogni grandezza, anche se Nino è un debole personaggio metastasiano. Semiramide ha l’animo forte e pronto ad ogni audacia ("...Son donna, è ver, ma tale. - Capace d’ogni impresa per rendermi immortale": a. II. sc. 7). Ella vanta, di fronte alla principessa Nicotri, la sua umile nascita e il proprio merito. Altro che la povera Pamela! (vol. V. pp. 81 e 104).

Non sorti dalla culla. qual tu, regal splendore.
Ma altrui mi fero nota la forza ed il valore;
E a fronte di chi ostenta qualche splendor natio,
Posso dir francamente: quello ch’io vanto, è mio.

Questi due ultimi versi sembrano proprio sorgere, come un grido spontaneo, dal cuore di Carlo Goldoni.

I doni della sorte han cambiamento alterno,
La gloria conquistata suol vivere in eterno.
Chi regna senza merito, cade in oblio profondo.
Ma la virtù sussiste anche distrutto il mondo. (a. II, sc. 6)

Cotesto rimbombo frugoniano ci ricorda altre audaci affermazioni dell’abate Chiari. Come Mirandolina e come Ircana, così Semiramide conosce il suo potere femminile e gode del suo trionfo:

Vincasi col rigore. vincasi col pianto,
Bastaci conseguire della vittoria il vanto. (a. IV, sc. 5)

Ma il Goldoni difende le donne dalle accuse dello stolido Sidone (vedi specialmente il soliloquio di Corina in fine della sc. 3. a. IV) e nell’ultima scena fa loro un complimento per bocca dello stesso Zoroastro.

È cosa strana ritrovare lo Zoroastro fra le commedie che la compagnia Roffi recitava fra il 1770 e l’80 nel teatro di via del Cocomero a Firenze (Rasi, I Comici Italiani, vol. I, pag. 703). E proprio quello del Goldoni? Dalle povere ollave, con le quali il comico Jacopo Corsini illustrò il repertorio della compagnia, pare di no (ciò mi comunica l’amico Edgardo Maddalena). Poichè a stampa uscì solamente nel 1793, poco dopo la morte dell’autore, nel tomo XXXII (XI della 3ª classe) dell’edizione Zatta di Venezia: una ristampa ne fece tosto a Bologna il Lucchesini, altre se ne fecero nell’Ottocento, ma nè attori, nè critici si curarono più di questo infelicissimo saggio della musa tragica che il grande commediografo veneziano esibì ai concittadini sul palcoscenico di San Luca per appagare la smania di novità, per accontentare la Bresciani, invincibile Ircana, e il paron Vendramin, nove mesi dopo la recita dei Rusteghi e pochi giorni prima della Casa nova.

G. O.