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Ignoro per quali ragioni, se per colpa della censura o d’altro, l’autore rimandasse al futuro anno la recita dello Zoroastro: consiglio buono fu quello di scrivere in versi martelliani la nuova tragicommedia, non già in ottava rima. a mo’ delle antiche Devozioni, come stranamente aveva pensato il dottor Carlo. La prima rappresentazione ebbe luogo la sera del 24 novembre 1760, col titolo Il Zoroastro Re de’ Battriani; e Gasparo Gozzi, che a Venezia aveva iniziato la critica teatrale, s’affrettò a darne notizia ai lettori nel numero 85 (26 novembre) della Gazzetta Veneta.”In essa si veggono“dice il conte Gasparo parlando di questa tragicommedia”alcune scene, che ben mostrano d’esser di mano d’un autore peritissimo nell’arte del piacere al popolo; e sono un imitazione dell’Alessandro nell’Indie. Non parve però che agli spettatori la rappresentazione gradisse da capo a fondo. Chi trovò che troppo frequenti fossero i discorsi d’astrologia, chi la fine non essere debitamente sviluppata. Soprattutto il carattere di Semiramide non fu gradito. La colpa è forse della tragicommedia, componimento per sè mostruoso“(v. ed. per cura di A. Zardo. Firenze, 1915, pp. 360-361). E qui il Gozzi, dopo alcuni savi ragionamenti, conclude:”I teatri oggidi chieggono varietà, e si tenta ogni via per variare. Quanto dico è un capriccio. Nessuno più di me stima l’autore, il quale nelle commedie non sarà mai pareggiato“.

Nel numero seguente della Gazzetta si legge una lunga lettera”al Gazzettiere d’un tale che si nasconde sotto il nome di Oreofilo, ma in cui è forza riconoscere il Gozzi stesso: “...So che la tragicommedia intitolata Zoroastro Re de’ Battriani” scrive il finto solitario “non è stata dagli spettatori troppo gradita, e che l’Autore non è stato con troppa carità trattato dagli amici suoi medesimi”. Ottimo il consiglio che Oreofilo dà al Goldoni, e coincide con quello che si deduce dalle parole che abbiamo letto più sopra: “Se io fossi amico confidente dell’Autore, vorrei pregarlo di far sempre uso della sua propria fantasia, la quale in genere comico è impareggiabile, e tenersi lontano da fatti storici, nelli quali l’abito da lui fattosi del verisimile. non mai gli permetterà di maneggiare la verità con quella forza che senza degenerare nel maraviglioso e nell’inverisimile in fatti veri e di loro natura non forti, non può urtare e mover gli spettatori”.

E più sotto: “Se voi dunque siete amico confidente dell’Autore, ditegli che non potendo indurre l’animo suo a far delle cose sfigurate e contradditoriamente maravigliose, tralasci d’assecondare e le novellette degli amici e fatti storici, e faccia uso di quell’impareggiabile pennello, che Natura gli ha posto in mano, e che egli con lo studio e coll’arte ha perfezionato, e dipinga la Natura in quella prospettiva che, senza mancare al verisimile per sua dote particolare, possa colorire con quella forza di tinte, con le quali da tanto tempo ammaestra e piace” (ed. cit., pp. 365-366). Eccellente consiglio! e ci avviene di pensare che se il Goldoni ne’ due ultimi anni del suo soggiorno a Venezia, lasciate da banda le mostruose tragicommedie, creò la Casa nova e la Buona madre e le Villeggiature e il Todaro e le Baruffe chiozzotte e Una delle ultime sere di carnovale, gioielli del teatro veneziano, un pochino di merito l’ebbe con la sua Gazzetta il buon Gasparo Gozzi, primo cronista e critico del teatro italiano.

Maggior curiosità ci desta, nello stesso numero, una lettera aperta del