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410 ATTO QUINTO
Compiasi nel mio capo de’ giusti Dei lo sdegno;

Zoroastro perisca, e ne trionfi il regno.
Ma qual nuovo ministro alla bipenne ardita
Dovrà porre la mano per togliermi la vita?
Olà, diasi una scure alla crudel Semira,
Che con studiati inganni alla mia morte aspira.
Diasi un ferro a Cambise, sotto di cui consente
Il gran re degli Assiri nascondersi vilmente;
E fra la donna illustre ed il garzon reale
Si disputi la gloria del colpo micidiale.
Ma no, sì nobil vanto v’è chi contrasta ad essi:
Esser desian ministri i miei vassalli istessi.
Scuri recate intorno ai perfidi inumani,
Tingano nel mio sangue, tingano i rei le mani;
Il popol sciagurato dal giogo mio respiri,
Per piegar la cervice al giogo degli Assiri;
E il volubile genio, col proprio re tiranno,
Pianga sott’altro impero lo scellerato inganno.
Perfidi, vi ammutite? Non vi è di voi chi ardisca
Prender il ferro il mano, e che il mio sen ferisca?
Ah! Nicotri, Nicotri, tu più di tutti hai dritto
Di punir oltraggiata l’ombra del mio delitto;
Che fu un’ombra soltanto di delirante amore
Ciò che mostrò di toglierti una porzion del cuore.
Ah! sì, d’accorta donna fur le lusinghe e i vezzi,
Uniti del tuo labbro all’onte ed ai disprezzi,
Che nel mio cor distrusse della costanza il vanto,
Sparso dal rio veleno dell’amoroso incanto.
Bella, perdon ti chiedo. Se nel tuo cor reo sono,
Vendica tu gli oltraggi; toglimi vita e trono.
Tu sol di Battria erede, hai tu ragion sul soglio,
Non degli Assiri il fasto, non dei rubei1 l’orgoglio.
Scure alla man condegna sia la regal mia spada:
Apriti nel mio seno al regno tuo la strada.

  1. Nel testo è stampato: rubbei.