Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1927, XXV.djvu/366

362 ATTO SECONDO

SCENA IV.

Nicotri e Cleonte.

Cleonte. Non mi fuggir, Nicotri, sai ch’io t’adoro e peno;

Lascia colla speranza ch’io mi lusinghi almeno.
Lascia che in quei begli occhi, fonte del mio cordoglio,
Vegga di pietà un lampo a moderar l’orgoglio.
Nicotri. Ah! la mia tolleranza troppo ti rese audace:
Feci, soffrendo un empio, un torto alla mia pace.
Troppo ti fui pietosa celando al tuo regnante
L’ardir con cui ti scopri della sua sposa amante.
O cessa importunarmi, o di mia fè lo zelo
Vince ogni altra pietade, e i tuoi deliri io svelo.
Cleonte. A che pro tanta fede per chi d’amore è indegno?
Scuso in te, principessa, l’ambizion del regno;
E soffrirei vedermi posposto ad un sovrano,
Se il tuo desir non fosse inopportuno e vano.
Del cor di Zoroastro come fidar ti puoi,
S’ei suole a oggetti vari partir gli affetti suoi?
Vedi i novelli insulti del mancator che adori,
Vedi che in lui germogliano sempre novelli amori.
Se dall’amor sei punta, dei procurar vendetta.
Se alla corona aspiri, dalla mia man l’aspetta.
È ver, di Battria al regno fu Zoroastro alzato,
Ma di regnar non merta chi nacque in basso stato,
E molto più chi usurpa ai tuoi diritti il trono,
E corrisponde ingrato de’ suoi vassalli al dono.
Tu del sangue regale ultimo germe e solo,
Puoi serenar, se il brami, della tua patria il duolo,
Ed offerir la destra e procacciare il regno
A chi d’un tuo nemico è di regnar più degno.
Pensa: di te si tratta, scuoti il giogo fatale;
O venerar ti appresta sul trono una rivale.
Non giudicar che parli amor stolto o mendace;
Apri le luci al vero, pria di chiamarmi audace.