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pp. 325-6). - Peccato che la poesia questa volta manchi e quindi il paragone non regga. Non esprime il Gozzi più chiaramente il proprio giudizio sull’opera del Goldoni, ma il silenzio stesso è condanna. Nemmeno dice quali accoglienze facesse il pubblico alla "rappresentazione" goldoniana: certo non furono calorose.

A breve distanza seguì la recita dell’Enea nel Lazio dell’abate Chiari, dove si ammirano tra i personaggi Eurialo e Niso, e il vecchio Evandro col figlio Pallante, e il feroce Mesenzio e la vergine Camilla, e perfino Vulcano "co’ suoi tre Ciclopi ". L’azione finisce virgilianamente col duello fra Enea e Turno. Anche questa rappresentazione "fu per più sere ricevuta sulle Venete scene niente meno benignamente dell’altre" (v. Osservazioni in testa al tomo VIII delle Commedie in versi dell’abate P. Chiari, Venezia, 1761, pag. 7). L’anno dopo apparve a stampa nel tomo VIII della Biblioteca Teatrale scelta da Ottaviano Diodati, patrizio di Lucca, un altro Enea nel Lazio, misero dramma per musica di Vittorio Amedeo Cigna torinese, che "nella tessitura della Favola" più che Virgilio ebbe "in mira lo storico Dionigi di Alicarnasso": forse quello stesso che fu musicato dal Traetta a Torino nel 1760. E quasi non bastasse, il 15 novembre del 1765 recitavasi nel teatro di via della Pergola in Firenze l’Arrivo di Enea nel Lazio, componimento drammatico del marchese Vincenzo Alamanni, musicato da Baldassare Galuppi (v. Franc. Piovano, in Rivista Musicale Italiana, XIV, 1907, f.° 2, pag. 364); e nel ’72 ancora un Enea nel Lazio osava presentare certo Ubaldo De-Mari al famoso concorso di Parma (E. Bocchia, La drammatica a Parma, Parma, 1913, pag. 180).

Così il pubblico del Settecento vide più volte l’eroe troiano, il pio figliuolo d’Anchise e di Venere, scendere sulle rive alme del Tevere. Come ai più fortunati romanzi solevasi aggiungere qualche volume di nuove avventure, così molti scrittori parvero provare desiderio di far seguito alla Didone del Metastasio. Ma l’abate Chiari con quel suo cervellaccio riscaldato interpretò, più o meno rozzamente, il sentimento eroico popolare, e mescolò nel suo bizzarro intruglio leggende mitologiche e storiche, ricordando la futura potenza romana: il Goldoni no. Egli non sa descrivere le passioni che non ha potuto conoscere nè fuori nè dentro di sè; egli smarrisce tutto il suo spirito e la sua vivacità nelle fila letterarie della tragedia del Settecento. Anche qui, come nell’Artemisia, sbandito ogni elemento comico (appena rimane un sorriso nel personaggio di Perennio). ricadde nei miseri esercizi di scuola, diluì l’azione eroica in pettegolezzi d’amore e affogò i personaggi nella chiacchiera scialba e monotona. Quella povera Lavinia, più di tutti, diventa nel quarto e nel quinto atto d’una loquacità desolante; la voce calda e appassionata di Caterina Bresciani potè a malapena tener desti gli uditori: ma quante distrazioni nei palchetti semibui del teatro di San Luca! A torto il Goldoni si lusingava di poter stendere in pochi giorni una tragedia in versi italiani, così come improvvisava le argute scene d’una commedia nel dialetto delle lagune. I suoi poveri endecasillabi meritano di affondare nella colluvie arcadica del settecento; il linguaggio suona falso e ridicolo.

Di questo Enea insulso e puerile l’autore stesso non fece parola nelle Memorie; lo menzionò nell’elenco delle opere teatrali, ma per errore lo