Benché in Affrica nato, la tirannia ho in orrore.
Zandira. La virtù, la giustizia regna per tutto il mondo;
Gradisco i doni tuoi, ma il cuor non ti nascondo;
L’anima ho prevenuta da un dolce foco interno,
Quando ho amato una volta, l’amor serbo in eterno.
Teco restar mi vieta il rito ed il costume,
Pria soffrirei la morte che oltraggiare il Nume.
Ma se anche un Europeo chiedesse a me la mano,
Il primo amor dal petto trarmi potrebbe invano.
Ibraim. Ardi d’amor per uno che non vedesti ancora?
Zandira. Ah no, signor, quest’alma un che conosce, adora.
Da me non ti sovviene aver poc’anzi udito
Viver fra lacci un schiavo alla mia sorte unito?
Non ti sovvien ch’io dissi, chi a liberar mi viene,
Anche Lisauro meco dee trar dalle catene?
Questo gentil garzone, unito al genitore,
Prove diè nel naviglio di forza e di valore.
Piacquemi il di lui volto, tosto che il vidi appena:
Ma al mio dover pensando, dissimulai la pena;
E in faccia alle pupille amabili, leggiadre,
Non mi scordai lo sposo, cui mi guidava il padre.
Il genitor perito, cinta fra lacci il piede,
Sciolta da ogn’altro nodo l’anima mia si crede.
A consolarmi intento veglia Lisauro amante,
L’unico ben ritrovo in lui fra pene tante.
Alì, corsar feroce, farmi violenza intende;
Ei fingesi mio sposo, e l’onor mio difende.
E la finzion mi piace, e mi diletta a segno,
Che d’esser sua prometto col più costante impegno.
Sia libera, sia schiava, comun la nostra sorte
Voglio servar in vita, e tollerare in morte.
Ibraim. Meno d’Alì crudele son io, giovane vaga;
Ti amo, è ver, lo ridico, ma la ragion mi appaga.
Guardati dal corsaro che a possederti aspira;
Salva non ti assicuro, s’ei per amor si adira.