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462 ATTO TERZO
Tamas. Ah non volermi, o cara, sì perfido e malvaggio;

Padre da me non abbia questo secondo oltraggio.
Ho tal rossor che basta, se gli error miei rammento;
Dell’onte a lui commesse nell’alma ho il pentimento;
Nè sarà mai che torni col genitor placato
Ad onta di natura a comparire ingrato.
Ircana. Vanne, e il padre consola. (sdegnata
Tamas.   Meco tu pur deh vieni.
Udirai come parlo, di me ti fida.
Ircana.   Tieni.
(gli vuoi dare uno stilo
Questo ferro conosci?
Tamas.   Con ciò, che dir mi vuoi?
Ircana. Questo è quel che doveva finire i giorni tuoi:
Con questo di mia mano saresti al suol caduto,
Se Fatima opportuno non ti recava aiuto.
Ella di me più merta, poiché poteo1 salvarti;
Io merto i sdegni tuoi, se fin tentai svenarti.
Pur di ragione ad onta, pretendo esser amata,
Pretendo dal tuo cuore fin la rivale odiata.
E vanto nel mio seno la pretension sì forte.
Che sol può sradicarla o la tua, o la mia morte.
Ecco, a te mi presento, no a domandar perdono.
Che vile qual tu sei, anima vil non sono:
Ma per troncare i nodi di un infelice amore.
Chiedo che tu mi passi con questo ferro il cuore.
Tamas. Sì, tal da me pretendi sforzo d’amore ingrato,
(prende lo stilo
Che sol può dalla morte venir ricompensato.
Sia che ti accenda il seno amor, sdegno o dispetto,
Vo’ soddisfarti, Ircana, vo’ trapassarmi2 il petto.
(in atto di ferirsi
Ircana. Ferma; ver me rivolta il braccio feritore.

  1. Rìst. torinese e Zatta: potea.
  2. Ed. Pitteri: trappassarmi.