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Ortiz, la quale così conclude: “Questo d’Ircana è un carattere concepito felicemente. Meno in qualche caso, ella si mantiene sempre eguale a se stessa in tutte le sue vicende, nessun ostacolo riesce ad abbattere il suo animo fiero, ella ha in sè la forza di superarli tutti, e desta in noi ammirazione, come ogni vittorioso” (p. 30). - Ircana ci ricorda insomma altre figure femminili, indiavolate e frementi, del teatro goldoniano: ma qui abbiamo un fantoccio. Certo non riesce a commuoverci anche se la disgrazia l’ha resa più calma, più buona, più simpatica, come ben osserva la Ortiz; anche se tutto il suo odio non è più contro la innocente Fatima, bensì contro I perfidi, i lascivi serragli Monsulmani che con audacia rivoluzionaria vorrebbe distruggere. Qui dunque il dramma propriamente scompare, manca la lotta delle passioni, mentre sorge la commedia fra stranezze e inverosimiglianze d’ogni genere.

Nè in tutto approviamo ciò che la Ortiz afferma intorno al riso comico; “Una comicità più schietta e derivante dalla situazione stessa è quella d’Ircana in Julfa. Il subito accendersi delle donne armene per Ircana che esse vedono in abiti maschili; la gara non sempre muta che si accende tra donna e donna, e perfino tra madre e figlia, sono cose che il Goldoni può guardare dall’alto, e sorriderne senza soverchia amarezza, anzi con una serena e benevola indulgenza” (p. 34). Certo l’autore comico non si smentisce mai; e Attilio Momigliano può scrivere: “Per quanto cattiva sia una commedia del Goldoni, quando arriva ad una scena di conversazione femminile si rialza sempre nella malignità delle insinuazioni” e cita la scena 9 del terzo atto dell’Ircana (v. La comicità e l’ilarità del Gold., in Giorn. stor. letta it.a, I semestre 1913, vol. LXI, p. 208). Ma quel travestimento e quegli equivoci d’amore, cento e cento volte ripetuti in tutte le novelle e in tutte le antiche commedie, non osiamo dichiarare che risplendano qui di novità e d’arte sotto la penna di Carlo Goldoni.

Del resto i biografi e i critici goldoniani condannano, di solito con brevi parole, tutta intera la trilogia persiana, senza mostrare per l’una o per l’altra parte maggiore odio o pietà. Non a torto la signora Olga Marchini-Capasso fa un gruppo solo delle commedie esotiche e delle commedie storiche raffazzonate dal Goldoni “su pochi spunti raccolti dai libri di consultazione... Nessuna Peruviana, nè Persiana, nè Dalmatina gli ha mai rivelato i segreti dell’anima sua.... ed esse rimangono lì, dinanzi ai nostri occhi, tra i luccicori delle loro perle e dei loro costumi smaglianti, dondolandosi come le marionette sul filo, immobili nella rigidezza dei loro volti, obbedienti ad una mano che le conduce e le fa muovere con isforzo evidente... Questi sono i lavori dove Goldoni vien meno al suo principale canone d’arte di non tradir la natura; manca la verità dappertutto” (Gold, e la commedia dell’arte, Napoli. 1912, P. 147).

E già Carlo òozzi nelle Memorie inutili (Venezia, Palese, 1797, L I, 279-280) si era sfogato contro quelle “opere semitragiche piene d’assurdità, d’improprietà, di mal esempio del costume orientale”, contro le “bestiali Ircane”, i “sozzi eunuchi” e le “Curcume nefande”. Pare che anche il pubblico italiano facesse di tutte, bene o male, lo stesso conto, quando intorno al 1820 la compagnia di Giacomo Modena le portava tuttavia in giro pei teatri. Trovo nei viaggi del signor Valery questo ricordo, da Genova: