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272 ATTO TERZO
Zilia.   Alfin veggo un amante

Veggo uno sposo alfine, che mi ha serbato il Cielo,
Mercè de’ voti miei, del mio amor, del mio zelo.
Siedi a Zilia vicino. Oh come ancora in queste,
All’Europea tagliate, meno superbe veste
La maestà risplende d’un figliuolo del Sole,
D’un che nell’Indie nostre nacque di regal prole!
Con quei morti capegli cambiato il biondo crine,
Splendono niente meno tue luci peregrine.
Nel lungo manto avvolto sembravi ancor più bello;
Ma il labbro tuo è lo stesso, ed il tuo ciglio è quello.
Vedo che le sventure han rispettato in te
Un eroe della terra, un Peruviano, un Re.
Qual delle mie sventure in mezzo al rio furore
Dall’incostanza illeso ho a te serbato il cuore.
Ma tu non parli! Oh Dio! sciogli quel labbro amato;
Dimmi, se m’ami almeno, se all’amor mio sei grato.
Fa che un momento solo tutta l’ingiuria emende
Delle finor passate durissime vicende.
Fa che aspettato in vano non t’abbia, idolo mio.
Dimmi che è mio quel cuore. Di’ che il tuo cuor son io.
Aza. Zilia, se vuoi piacermi, serba il sistema antico.
Son Peruviano ancora, son del mio stile amico.
Dal lungo dir confuso sovente il ver si guasta.
Dimmi che mia ti serbi; dimmi che mi ami, e basta.
Zilia. Hai ragion; della patria riprenderò il costume.
Ma dimmi: ami tu Zilia?
Aza.   Zilia è sempre il mio nume.
Zilia. Basta così, lo credo; di ciò più non si parli.
Raccontami i tuoi casi.
Aza.   Tempo avrò per narrarli.
Tu dimmi, ove siam noi.
Zilia.   Godiam del Cielo i doni.
Quel che tu vedi, è mio; di quel ch’è mio, disponi.
Aza. Spiegati; egli è un mistero.