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266 ATTO TERZO
Deterville.   Zilia dove dimora?

(prendendo la lettera
Pierotto. Sta sulla colombaia col cannocchiale in mano
A veder di Parigi venire il Peruviano.
Deterville. Tal impazienza, o Numi, per lui nutre ne) seno?
Per me tanta freddezza? L’ira mi toglie il freno.
Chi recò questo foglio?
Pierotto.   Un uom che, s’io non fallo,
Parmi dalla cittade sia venuto a cavallo.
Deterville. Chi lo manda?
Pierotto.   Noi so; ma se saper volete
Il messo e l’ambasciata, apritela e leggete.
Deterville. Son fuor di me. (apre il foglio
Pierotto.   Signore, voi siete innamorato...
Deterville. È Rigadon che scrive. Non è qui mio cognato?
Pierotto. Non signor; per Parigi saran, se nol sapete,
Due ore ch’è partito.
Deterville.   Per qual ragion?
Pierotto.   Leggete.
Deterville. Qualche arcano s’asconde... ma giuro al Ciel... Leggiamo.
(legge da sè, piano
Pierotto. Al mondo qualche volta ridicoli pur siamo.
Può leggere e sapere, e bada a domandare.
Il povero padrone principia a vacillare.
Ma suo danno, suo danno,1 che diavol di pazzia!
Nè anche se delle donne vi fosse carestia.
Tanta abbondanza adesso di donne al mondo c’è,
Che a ogni uom, se si spartissero, ne toccherebber tre.
Deterville. (Cieli, che sento!) da sè
Pierotto.   E bene? Ora saprete tutto.
Deterville. (Eccoti, Zilia ingrata, della tua fede il frutto.
Paga il Ciel giustamente l’animo tuo crudele.
Aza per cui sospiri, Aza è teco infedele). da sè

  1. Nella ristampa di Torino (1775) e nell’ed. Zatta (1792): Ma oscilli a suo danno.