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152 | ATTO SECONDO |
Nel momento primiero che scopromi allo sposo,
Veggolo nel mirarmi immobile e ritroso.
Misera, e quand’io spero m’accolga fra le braccia,
Volge le luci altrove, e non mi guarda in faccia!
Oltre al dover, son prima a scioglier la favella,
Non ha rossore a dirmi, che la sua schiava è bella,
Che l’ama, e che pretende, per contentar l’audace,
Sagrificar la sposa, e rimandarla in pace.
Vile non son; de’ torti sento nell’alma il peso,
Veggo l’amor di sposa, veggo l’onore offeso.
Ma che giovar poteami, con un che mi disprezza,
Con un che può scacciarmi, lo sdegno e la fierezza?
Quel che non fa la pace, quel che non fa l’amore,
Coi sposi Monsulmani far non puote il furore.
Dissimular conviene, soffrir la crudeltade,
Per muoverlo col tempo a dolcezza, a pietade;
E celando nel petto la gelosia crucciosa
Agli occhi del crudele rendermi meno odiosa.
Per me di morte istessa più barbaro è il dolore
Di cedere a una schiava del mio diletto il cuore;
Ma perchè ciò non segua, dir degg’io di volerlo,
E guadagnar lo sposo, mostrando compiacerlo.
SCENA VIII.
Curcuma e detta.
Curcuma a voi s’inchina, delle donne custode.
Fatima. Sì, cara mia, prendete, d’aggradimento in segno.
Questo di vero affetto amichevole pegno.
(si abbracciano
Curcuma. Siete gentil davvero; bella siete e graziosa.
(E parmi che esser debba discreta e generosa). da sè