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ENRICO | 529 |
SCENA VI.
Enrico, poi Matilde dal suo appartamento.
Momenti. Or che lo sposo e il genitore
Lungi son da Matilde, a lei si vada.
Sappia la mia innocenza, e non condanni
D’infedele il mio cor. Ma giusto cielo!
Viene ella stessa. Che sperar degg’io
Da tal venuta? Oh la guidasse amore!
Matilde. Signore, io non credea che a tant’eccesso
La vostra crudeltà giugner sapesse.
Che vi fece Leonzio, onde vogliate
Cotanto imperversar contro il suo sangue?
Non vi bastava esaminar la figlia?
Contro il genero ancor sfogate l’ira?
Ditemi: in che v’offesi? Ah se l’amarvi
Colpa fu di Matilde, il mio delitto,
Ve ’l confesso, fu grande. Assai mi sembra
Compensato però da tante pene
Che ho sofferto per voi. Barbaro Enrico,
Dopo avermi tradita, or mi volete
Per trionfo maggior prostrata a’ piedi?
L’onor mio mi conduce. Il mio decoro
Per lo sposo mi fa1 chieder pietade.
Ma la chiedo ad un Re troppo tiranno,
Nè sperarla poss’io. Giustizia adunque,
Giustizia, o Re. Se la negate, al Cielo
La chiederò; non sarà sordo il Cielo
D’una misera donna al giusto pianto.
Enrico. Deh non mi condannate entro il cuor vostro
Senza prima ascoltarmi. Al solo fine
Di scolparmi con voi, da voi lontano
- ↑ Bett.: Fammi del Sposo mio.