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460 ATTO QUINTO
Chi di noi di premiar l’arbitrio serbi,

Chi di noi del punir serbi il potere.
Io però mi riserbo il sommo impero
Sulle teste degli empi Maganzesi;
Io li condanno a morte; in ciò Rinaldo
Parte non abbia, la pietà pavento
D’un eroe senza pari.
Rinaldo.   Ah! mio Signore,
Non periscan per me...
Carlo.   Se non per voi,
Per me deggion morire. Siano condotti
Sopra colle eminente, ed alla vista
Dell’esercito tutto i traditori
Siano decapitati.
Florante.   Ah! lo previdi,
Ch’esser questo dovea1 il nostro fine.
Ruggiero. Ve lo predissi anch’io, ma nol credeste.
Gano. Germano incauto! Ah! fosti tu, che tutta
La macchina distrusse2. Io vado a morte,
Ma vi vado però col vanto illustre
D’aver tentato una sublime impresa.
È nostro il meditar: è della sorte
L’esito delle cose. Un giorno solo,
Che tardava il destino ad insultarmi,
Carlo non era re; peria Rinaldo,
Gano in trono saliva; e tu, superbo,
Tu, che aspiravi al grande onor del trono,
Mio vassallo saresti; e forse, forse,
Avrebbe il capo tuo troppo fastoso
Le vittime accresciute a mia grandezza.
(parte, condotto da guardie
Florante. Ecco ciò che distrusse un’opra indegna
Piena d’infedeltà, piena d’orrore.
Scellerato german: tu m’inducesti

  1. Forse è da leggersi doveva.
  2. Così nel testo.