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448 ATTO QUINTO
Ascoltatemi, o Sire: io non domando

La vita in don del figlio e del consorte;
Tempo sol vi domando, e questo tempo
Forse a voi gioverà più che a me stessa.
Grazie a vostra bontà parlai, Signore;
Voi m’udiste, m’udirò i miei nemici:
Essi tremano forse. Ah! voi cogliete
Dal sincero mio dir quel frutto, o Sire,
Che alla vostra salvezza è necessario.
Tempo, tempo, Signor: deh, non scagliate
Fulmini all’innocenza; io ve ne priego,
Che il Ciel lo scoprirà. Se fosse reo
Di sì enormi delitti il mio consorte,
Nemica io gli sarei; ma s’è innocente,
Ma se a torto è punito, invitto Sire,
Destatevi a pietà. Ve la dimanda
Una moglie infelice, una di Francia
Onesta dama, una che offrir non puote
Che sangue e pianto, e ch’è di sparger pronta
Per due vite sì care e pianto e sangue.
Carlo. Voi parlaste, Clarice: io non m’opposi:
Giusto è il vostro dolor; ma vi avanzaste
Oltre il dover. Sì, condonare al sesso
Qualche cosa si può: venga Rinaldo.
Gano. Con licenza del Re, voi mal parlaste,
Signora, per mia fè. Gano e Fiorante
Che vi fecero mai? Perchè oltraggiarli
Cotanto nell’onor? Misera dama!
Vi fa cieca l’amor: non comprendete
Di Rinaldo infedel l’onte e gli oltraggi
Fatti al talamo vostro; egli Armelinda
Sostituisce ai raffreddati amplessi
D’una credula moglie.
Clarice.   Empio! tacete.
Non è vero: mentite, il mio Rinaldo