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316 | ATTO TERZO |
SCENA VIII.
Don Alfonso, Don Giovanni e guardie in lontano.
Di segnalati, gloriosi eroi.
Degenerar dalle virtù degli avi
Non potreste volendo, onde non puossi
Da voi sperar ch’opre famose e degne.
Pur violenza d’amor, che vincer suole
Gli eroi senza riserva e i saggi opprime,
Potria spargere in voi quel rio veleno
Che alle menti più chiare usurpa il senno,
Nè appellar io saprei sfregio e delitto
Una tale sventura. Il molle istinto
Dell’inferma natura, il più bel fiore
Di giovanile età, vezzi e lusinghe
Di femminil sembiante han forza tale,
Che se non fugge un cuor, resiste appena.
No, don Giovanni, non chiamate al volto
L’importuno rossor; io compatisco
Le amorose follie. Da voi sol chiedo
Di vostra lealtà sincere prove.
Ditemi, è ver che lusinghiero amante
Di fè mancaste a verginella illustre?
D. Giovanni. Pur troppo anch’io della comun sventura
A parte fui nel seguitar Cupido.
Amai, ed amo ancor; ma l’amor mio
Colpevol non mi rende, anzi l’onesta
Fiamma m’accende di pudico amore.
Amo la sposa mia, quella che il cielo
Mi destinò, quella il cui nodo piacque
Alla patria, ai congiunti ed al mio cuore.
D. Alfonso. Posso il nome saper?
D. Giovanni. Donna Isabella
De’ Duchi d’Altomonte.