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DON GIOVANNI TENORIO | 289 |
Di Licisca1 e Megacle e di Fileno,
E di tant’altri che mi furo amanti,
Finsi gradir per vanità l’affetto;
Carino ha un non so che fuor dell’usato,
Che mi penetra il cuor. Quel suo modesto
Soave favellar, quel ciglio umile,
L’onestà de’ costumi, il cuor sincero,
Lo distingue dagli altri, e nel mio seno
Serbogli ’l primo luogo. Io l’amo, e voglio
Questa gloria donare a’ merti suoi,
D’aver reso il cuor mio costante e fido.
Ma quai grida son queste? (verso la scena
SCENA III.
Don Giovanni e detta.
Elisa. Cieli, che mai sarà?
D. Giovanni. La vita almeno
Non mi togliete. (di dentro
Elisa. Un uom corre, e si lagna.
Che mai gli avvenne?
D. Giovanni. (Fuori) Ohimè infelice! solo,
Delle vesti spogliato e degli arredi,
Dove m’aggirerò?
Elisa. Quale sventura,
Signor, v’accade? Poss’io darvi aita?
D. Giovanni. Empio drappel di masnadieri indegni
Mi spogliò qual vedete. I servi miei
S’involaro al periglio; il mio destriero
Hanmi rapito, e quanto di prezioso
Meco aveva, perdei.
Elisa. (Misero! quale
Pietà in seno mi desta!) Io tal sono,
- ↑ Così nel testo.