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una tragedia dell’amore, creò la tragedia dell’odio. Una sola figura grandeggia a quando a quando in questo infelice saggio drammatico: quella di Alerico, re dei Goti. Ben avverte Rosario Bonfanti nel seguire i primi passi del futuro commediografo sul teatro: “Nella Rosmonda non v’ha niente che offenda la serietà tragica, hanno i personaggi alcun vigore nelle loro passioni: quel che difetta è la forma, tanto il dialogo è pedestre, tanto son privi questi principi e principesse dell’arte della parola, che pur avrebbero sentimenti straordinari da esprimere. Vuote esclamazioni e continue querele, nelle quali talora il contrasto di supremi interessi assume il tono, di volgar battibecco” (La Donna di garbo di C. G., Noto, 1899, p. 40). È vero, purchè per forma si intenda poesia, arte: quel segreto che l’autore dei Rusteghi possedette mirabilmente, di far parlare nella commedia i personaggi più umili, di penetrare così nelle loro semplici anime da tenerle nella sua mano, gli manca del tutto in questo mondo shakspeariano a lui ignoto, nell’atrio di una reggia dove si espande immortale la nobile voce di Sofocle o quella di Corneille.
Eppure il Goldoni riuscì a creare “un personaggio tragico fra i più efficaci del tempo” (G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., Ven. 1907, p. 26. Mario Penna che nella Rosimonda, come dice sempre per isbaglio, scopre un “tentativo d’analisi psicologica”, benchè sia “opera d’arte mancata”, crede di poter accostare Alerico a Osroa, nell’Adriano in Siria del Metastasio: Il noviziato di C. Goldoni, Torino, 1925, pp. 28-30): lo creò malamente lo abbozzò con rozza mano, ma lo vide nella fantasia fin dalla prima scena quando il vecchio Alerico vuol uccidere anche la figlia, vittima innocente offerta all’ombra invendicata del figlio, prima di immergersi egli stesso la spada nel petto; riesce a strappargli qualche accento solenne in quell’odio cupo contro Germondo, in quel suo disprezzo per la vita, in quella sua ostinazione feroce. Bisogna sfogliare tante e tante tragedie classiche di tutto il nostro teatro per trovare, prima dell’Alfieri, un’altra scena come l’ultima in cui il vecchio re, senza più regno, senza più trono, senza più figlia, ha in dono per castigo la vita dal suo odiatissimo nemico. Ma il dottor Goldoni, un po’ inesperto, un po’ inetto, sciupa ben presto ogni effetto drammatico, lacera da sé la trama della sua creazione, ricade nel nulla, nelle apostrofi, nei luoghi comuni, nella più sterile declamazione. Qualche somiglianza con Alerico avrebbe Alvida, la donna dell’odio, ma il disegno della sua figura si sbiadisce, si confonde con la Teodora del Belisario.
Il Goldoni era ben persuaso che la Rosmonda fosse “meglio scritta, e meglio condotta del Belisario” e attribuì il cattivo esito in parte all’argomento, in parte alla prima donna, Adriana Bastona, l’interprete principale, che non era fatta per simili personaggi (v. Memorie, nel I vol. della presente edizione, p. 106). A proposito di questa recita racconta per ridere che “mancando la ballerina che danzava fra gli atti, e gridando il popolo: furlana, furlana, ch’è il ballo favorito dei Veneziani, sortì la Bastona vestita all’eroica, e Rosmonda ballò la furlana” (ivi, p. 100). Il pubblico veneziano non capì la Rosmonda, si annoiò, come l’autore confessa (l. c., pag. 106 e Mémoires, l. c.); perciò la tragedia restò sepolta fino al 1793, quando lo Zatta la stampò per i lettori, nella sua grande edizione del teatro goldoniano.
G. O.