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da lui composte avevano potuto infiacchire il suo talento "(Répertoire du théàtre français, Comédies, XVII. Paris, 1818, p. 366). E Alexandre Pey: "L’argomento era abbastanza felice e il carattere del personaggio principale assai ben disegnato; ma l’esilità dell’intreccio e la freddezza dello stile che si risentiva dell’età dello scrittore, fecero cadere questa commedia (Nouvelle biographie generale, vol. XXI, 1857, p. 106). Meno conciso ma più severo G - è, ossia il Ginguené: " Egli [G.] ebbe nel 1773 un’altra ispirazione, ma non fu così felice (come col Burbero)" e ricordate le sorti dell’A. F, continua: "Questo carattere era però degno del teatro: il soggetto era bene concepito, ma l'esecuzione apparentemente troppo debole; l’età dell’autore si faceva troppo sentire; d’altra parte sembra ch’egli si fosse ingannato sull’effetto comico d’uno de’ suoi personaggi principali. E un uomo che ha il vezzo di non finire mai le sue frasi e d’intercalarvi, a qualunque proposito, delle parole parassite come così va bene. Se ne trovano parecchi di tal sorta nelle commedie italiane del G.; ciò che fa credere che piacevano molto in Italia. Préville si prese questa parte, ma lo stesso Préville non poteva far passare in Francia, e specialmente a Corte, un’abitudine per un carattere" (Michaud, vol. XVII, 1854, p. 109; il giudizio fu riprodotto con l’intero nome dall’autore in Storia delle lettere e delle arti in Italia, ordinata per cura di G. Rovani, Milano 1857, p. 166). Al Royer il soggetto parve piuttosto roba da romanzo (Histoire universelle du théâtre, Paris, 1870, IV, p. 288): Il "contrasto nella figura del protagonista, spinto all’eccesso," nota il Pròlss, "fa di quel conte Casteldoro un essere bicipite" (Gesch. des neueren Dramas, Lipsia, 1881, vol. I, parte 2^, pag. 227). Il silenzio che accolse quest’avare è peggio dei fischi, "scrive il Klein, "Da una salva di fischi la commedia può rialzarsi, un’accoglienza glaciale uccide. Critica e storia della letteratura non possono accoglierla neanche come scheletro, come riassunto nel loro museo anatomico, che pur lo scheletro d’un simile lavoro va in polvere anche se toccato da lievissimo soffio " (Geschichte des Drama’s VI, p. 476). Laconica la condanna dell’Hauvette: "Non basta un’antitesi a creare un personaggio" (Littérature ìtalienne, 1906, p. 366). Invece, a detta del Rabany, in questo Conte di Casteldoro che perde l’un dopo l’altro due buoni partiti perchè chi lo crede prodigo e chi avaro c’è "una vera idea comica, "che però a poche righe di distanza diventa soltanto" ingegnosa "e non passa il livello del vaudeville. E subito entra in ballo il Molière, creatore di caratteri universali, col suo Arpagone (C. G., le théâtre et la vie en Italie, 1896, p. 272). Gli risponde Pietro Toldo che l’avare molieresco, sempre capolavoro, è meno universale che non paia al Rabany ed è - cosa già da altri notata - anzitutto fastoso egli pure. La commedia del Goldoni "ha a sua volta tratti geniali. Malgrado la sua mania di brillare, Casteldoro spende da usuraio, da usuraio ama e alla passione più forte sacrifica il suo amore" (L’oeuvre de Molière et sa fortune en Italie. Torino, 1910, p. 376).
Anche l'arguto esame del Chatfield-Taylor prende le mosse da Molière: "Se Arpagone non fosse venuto al mondo un secolo prima di lui, il conte di Casteldoro, l'avaro fastoso che caccia in tasca una pallottola di carta ogni volta che alla sua mensa si stura una bottiglia e affama i cavalli dei suoi invitati come i propri, sarebbe potuto passare per un taccagno veramente ori-