Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1923, XXII.djvu/299


291


questa che vi è imitata è natura, confesserò che è diversa assai dalla nostra, la quale è molto più bella e semplice". Ma una nota attenua poi l’implacabile condanna scritta "nel bollore degli anni".

Non il capolavoro. Forse un capolavoro. Certo una cosa in sè perfetta, formalmente perfetta quanto una qualunque commedia veneziana del Nostro. Queste sì emanazioni dirette dalla vita: il Bourru frutto d’attento studio del teatro francese, del quale con prontezza geniale il Goldoni s’assimila intonazione e maniere. E la materia riflessa avvivano scintille del miglior estro goldoniano. Stupenda la scena tra Dorval e Angélìque. Chi la scrisse aveva varcato i 60! L’autore, fornito in patria il ciclo della sua produzione, si rinnova, come più tardi farà, pure a Parigi, il Rossini col Tell - ricorso giusto e simpatico, a cui pensò prima il Tommaseo (Il serio nel faceto, Firenze p. 118), e come ai giorni nostri fece l’ottantenne creatore d’un Falstaff! Miracoli del nostro saldo e vecchio ceppo italico!

Un nulla il soggetto: "uno zio che paga i debiti al nipote" sintetizzò Vincenzo Martini (Commedie, Firenze, 1876, p. XLV). Piano e naturale lo svolgimento della breve favola. Squisito equilibrio di atti e di scene e le figure distribuite tutte con arte mirabile nei loro diversi atteggiamenti di bontà intorno a quella che ha il maggior risalto. Serrato, conciso il dialogo di rapide battute. Commedia più breve mai non scrisse il Goldoni. I francesi la dissero schematica e vollero scorgervi la mano abituata ad abbozzare scenari. Ma no. Il dialogo della vera commedia goldoniana non è secco, ma pieno e verboso. Quanti di quei critici n’avevano letta una sola prima di conoscere il Burbero? Sapevano sì che a Parigi, con scarsa sua gloria, il Goldoni aveva ideato una ventina di scenari La forma rapida e snella era consigliata da scrupoli di non offendere lo spirito della lingua e forse anche da propositi d’economia in chi disponeva d’un modesto capitale. Elementi comici e patetici s’alternano e si fondono senza visibili connessure. La sensibilità com’era nell’atmosfera, così fu nella commedia coefficiente di fortuna. La passione dei Dalancour, la commozione generale dell’ultima scena, portano il lavoro al dramma borghese, mentre la lotta di Geronte con se stesso, con chi gli sta intorno per fargli fare ciò che non vorrebbe, l’episodio delizioso delle progettate nozze tra la giovinetta e l’uomo maturo, temperano la materia patetica di buona comicità. Il grande successo della commedia, disse qualche francese, era dovuto anche all’esotismo dell’autore. Va concesso. E aggiungiamo pure il favore della corte, le forti aderenze che la bontà e onestà sua gli avevano procacciato. Ma ragione più efficace di tutte resta il merito reale del lavoro. Era di uno straniero anche l’Avare fastueux. Non per questo si salvò.

Il Goldoni "scrisse per la nostra Comédie un lavoro del quale tutti conoscono almeno il titolo e che è tra i suoi migliori: il Burbero benefico, " scrive Jean Dornis (Le théâtre italien contemporain, p. 9). E il Rabany: "Il Burbero benefico è rimasto alla scena, o almeno il suo titolo ch’ebbe la ventura di diventare proverbiale. E questo è certo qualchecosa" (op. cit., p. 240). Sì, è giusto rilevare la grande fortuna di questo titolo, composto di voci alliteranti e di concetti antitetici. Il primo dei quali non definisce con precisione Geronte - più che burbero - collerico. A ragione i primi traduttori