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la fina commedia, possa avere tutto in un colpo trovato quello stile in tale età, al qual niun italiano anche pratico di quella lingua sino da giovane non giunse mai, e condotta quella commedia con sobrietà, regolarità, buon gusto, fuor dell’uso suo di tant’anni e di tante opere... " (Opere edite ed inedite-... Venezia, 1801, Tomo XXI, p. 281).

Dunque solo in mezzo alla raffinata civiltà francese, con una lingua più viva e più svelta che non il suo italiano, avendo agio e tempo a un lavoro pensato, Goldoni raggiunge la meta, prima solo intravvista - ecco il motivo che dal Journal encyclopédique e dal Gozzi in giù più critici intonano e appena nel Burbero benefico scorgono il capolavoro. Per gli stranieri passi. E troppo comodo fermarsi su questa commedia francese piuttosto che brancolare nel vastissimo pelago della produzione goldoniana nazionale. Meno s’intende che anche tra noi più d’una voce abbia fatto eco ai critici di fuori, l’Andres (Dell’origine e dei progressi, ecc. Ven., 1787, VII, 53), il Meneghezzi (Della vita e delle opere di C. G., Mil., 1827, p. 133), l’Ambrosoli (Zoncada, I fasti delle lettere in Italia. Prose, Mil., 1853, p. 451, 557), il Benedetti (Discorso intorno al teatro ital., Fir., 1816, p. 57). E anche in tempi a noi più vicini A. R. Levi (Nel regno del teatro, 1855, p. 235) e lo Zanella non seppero sottrarsi all’ingiusto preconcetto che solo snazionalizzandosi il Goldoni trova il suo genio. E lo Zanella scrisse: "non si può misurare l’altezza, a cui sarebbe salito questo mirabile ingegno, se nella sua giovinezza si fosse scontrato negli uomini che conobbe sul declinare della vita" (Storia d. lett. ital. della metà del 700, ecc. p. 52). Non dice chi fossero questi "uomini" che nel Goldoni maturo d’anni infusero "il genio"!..... Restando sempre in terra di Francia più d’uno studioso nostro pensò ad istituire un parallelo tra Geronte e Alceste per quella lontana affinità ch’è nella concezione iniziale della figura. Fanno così il Nocchi (Comm. scelte di C. G., Fir., 1856, p. XXII), il Guerzoni (Il teatro ital. nel sec. XVIII, p. 206, 220, 257) e il Galanti (C G. e Ven. nel sec. XVIII,. S2, p. 264). Ma un critico anonimo [F. Martini?] chiese al Galanti: "E egli proprio sicuro che il Burbero sia meritevole di stare accanto ai capilavori di Molière? Geronte accanto ad Alceste? Eh via!" (La domenica letteraria, 14 maggio 1882).

A spirito decisamente antigallico s’intona invece questa solenne stroncatura di Domenico Gavi (Della vita di C. G., ecc. Mil., 1826, p. 167) che gli valse parole severe dal Montani (Antologia, 1827, p. 104): "Apollo dia senno a chi non l’ha, se questa commedia approva. Ella mi sembra una continua azion muta, solo da alcune parole interrotta: smorfie, ira e furia per tutto; scritta per belli epigrammetti e punti interrogativi, con sospensione di parole e di voce, non sapendovi che altro dire; ne mai vena o discorso disteso, o union di pensieri; ogni cosa è slanciata qua e là, e scoppia siccome i razzi. Quel burbero è una bestia, non un benefico, sia pur di buon cuore; ma l’essere si irragionevole da non poterglisi parlare una volta con pace, quel subito gonfiarsi di bile, e non lasciar mai che alcuno gli favelli senza tremore, se propriamente non istudia alla sesta il tempo, il luogo, la voce, per me non reggo, e tollerare noi posso. Un atto solo de’ suoi Rusteghi soffoca tutta questa commedia, e quante nel medesimo stile ne avesse scritte. Ma io parlo di cosa non italiana: essa è francese, e stia e piaccia su quelle scene, ove se