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quando scopre che il suo sospetto era infondato, e la gioia che lo invade"). Siora Tonina non fa brutta figura presso tante altre mogli goldoniane puntigliose e sospettose, e sior Gasparo senser è a modo suo un altro tipo di cortesan, come quel capo ameno di sior Lissandro; e quella Riosa e quella Lucietta possono stringersi a braccio con le altre messere goldoniane; e quel Zanetto può fare l’inchino a sior Tonin Bella grazia: ma anche il mercante sior Raimondo, della patria di Balanzon, pretende di essere ricordato benchè somigli piuttosto a un Pantalone bolognese; e più buffo e più originale di tutti si fa innanzi col berretto in mano l’oste indimenticabile della Tartaruga.

Anche a questa commedia veneziana, che vive soltanto del suo dialetto, toccò la fortuna non desiderata di una versione o riduzione in lingua italiana; e in tale veste novella comparve goffamente per le stampe nel Florilegio drammatico (num. 676), l’anno 1881 ("Chi la fa l’aspetta, commedia in tre atti di C. G., tradotta dal Veneziano dall’Istruttore dell’Accademia de’ Filodrammatici di Milano, Prof. Giacomo Landozzi - Milano, Libreria Editrice"). Sono sempre gli stessi atti e le medesime scene, ma i personaggi non si riconoscono più; e perfino al sgnor Raimondo ha dovuto bandire il linguaggio bolognese. Si capisce come la traduzione non sia letterale, e come il professor Landozzi abbia corretto liberamente il testo, tagliando o aggiungendo a voler suo.

Ferruccio Benini tentò di riporre sulle scene questa commedia, non so bene con quanti e quali ritagli; e le recite si seguirono per molte sere nel gennaio del 1909 a Roma, sul teatro Quirino (e di nuovo nel marzo 1911). Domenico Oliva nel Giornale d’Italia (21 gennaio 1909) rallegravasi del lieto successo: "Il pubblico rise continuamente, applaudì fragorosamente, si divertì immensamente: fin dalle prime scene di Chi la fa l’aspetta il buon umore penetrò nella sala del Quirino e man mano che si seguivano le profezie della fresca e gaia commedia, a ogni nuovo incidente, si può dire a ogni battuta, l’ilarità si faceva più clamorosa e più generale ". Poi, commentando, abbandonavasi alle seguenti considerazioni sull’arte e sulla commedia goldoniana: "Definite come vi piace Chi la fa l’aspetta, un proverbio in tre atti, una farsa, un vaudeville, certo è ch’è un pezzo di vita: di vita semplice e bonaria, senza dubbio; non è detto che la verità debba essere sempre triste e truce, e se pur troppo è tale qualche volta, anzi più spesso di quanto non sarebbe necessario, v’è pure la verità allegra, la verità che non fa il muso, la verità della brava gente senza fastidi, o almeno che se li prende con filosofia, e cerca dimenticarli ridendo e scherzando. La farsa non è solamente nel mondo della finzione, è anche, stavo per dire sopra tutto, nella realtà: di qui la traeva Carlo Goldoni, dilettandosi a osservare piccoli uomini e piccole donne, ad ascoltare i loro discorsi, le loro querimonie, i loro pettegolezzi, riproducendoli, così come li vedeva e li ascoltava, sulla scena. Che vi aggiungeva? Aggiungeva la festosità e la ricchezza del dialogo, che nelle commedie veneziane ha tutto lo spirito e tutto il colore di quel dialetto incomparabile: aggiungeva la sua arte di commediografo, così armoniosa, fertile e pronta. Un nonnulla gli basta, un qualunque lieve motivo iniziale: la commedia si svolge naturalmente e senza sforzi, senza artifizi, senza trucchi, corre al suo fine lesta e felice. - Burle di carnevale, piccole dispute domestiche, ecco tutto Chi la fa l’aspetta: non vi