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238 ATTO SECONDO

Fabrizio. Avete ragione. (E una cosa contro la ragione, e contro la convenienza). (da sè)

Lindoro. Zelinda, io non ho dubbi, non ho sospetti, ma questa cosa m’inquieta. Vi prego, son finalmente vostro marito, posso anche obbligarvi a parlare.

Zelinda. No, è inutile la preghiera, sarebbe inutile anche il comando, non posso parlare, e Fabrizio ne sa il perchè.

Lindoro. Fabrizio, per amor del cielo. (con ansietà)

Zelinda. (Mi pare che principii ad ingelosirsi). (da sè, contenta)

Fabrizio. In verità... se sapeste... ho pena anch’io.

Lindoro. Se siete un galantuomo, siete in obbligo di parlare.

Fabrizio. Sì, è vero, un galantuomo dee dar conto di sè, non dee far sospettar della sua condotta. Sappiate dunque...

Zelinda. Ehi, ehi, ricordatevi la parola d’onore. (a Fabrizio)

Fabrizio. Che parola d’onore? La parola si dee mantenere quando si tratta di cose di conseguenza, ma questa è una bagattella, è una corbelleria, a fronte di cui ha da prevalere la quiete, la tranquillità d’un marito. (a Zelinda con forza) Sappiate dunque che vostra moglie è afflitta, è inquieta, perchè crede che suo marito non l’ami più. (a Lindoro)

Zelinda. (Balza dalla sedia) Bravo, Fabrizio, questo è un ripiego a tempo, come quello della lettera alla figlia dello speziale di campagna. Vi lodo, siete un galantuomo, un vero mantenitor della parola d’onore. So ch’avete detto che colla mia segretezza io faceva onor alle donne, e voi mantenendo così bene il segreto, osservando così ben la parola, fate onore grandissimo al rispettabile sesso virile. (con ironia, e parte)

SCENA IV.

Fabrizio e Lindoro.

Fabrizio. (Si burla di me, ma non preme. In questo caso so d’aver fatto bene). (da sè)

Lindoro. (Povero me! a chi devo credere? Sono più confuso che mai). (da sè)