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con Carlo Bertinazzi di Torino, che il Goldoni nelle Memorie paragona per fama ai più riputati arlecchini, all’antico Biancolelli e al Sacco (v. Campardon, l. c; e Rasi, I Comici Italiani, Firenze, I, 1897, pp. 364 sgg.) e con la servetta veneziana del Teatro degli Italiani, Camilla Veronese, detta senz’altro la Camilla (M.lle Camille). "Pleine d’esprit et de sentiment" ricorda il Goldoni, "elle soutenoit le comique avec une vivacité charmante, et jouoit les situations touchantes avec ame et avec intelligence" Mém.es, p. III, ch. 3). Aveva cominciato a danzare quasi da bambina "con un fuoco, una grazia, una leggerezza ammirabili", con quella sua personcina "grossa come il pugno", con quel viso strano dov’erano "degli occhi enormi e una piccola bocca spiritosa" (Edm. de Goncourt, La maison d’un artiste, Paris, t. II, 1885, p. 174). Non aveva ancora trentanni, ma il teatro e gli amori dovevano ucciderla ben presto (morì nel 1768: v. Rasi, l. c. vol. II, 1905, pp. 641 sgg.; e C Samaran, J. Casanova vénitien, Paris, 1914, pp. 38 sgg., nota bibl. p. 44). Grimm, critico severo e intelligente, rimpianse la sua perdita: "Camille, scriveva, n’etait pas fort eloquente; elle savait assez mal la langue italienne; née a Paris, elle s’était accoutumée à parler français avec des mots italiens....; mais elle avait une grande chaleur, et elle entrainait à depit de ses mauvais discours; elle était d’ailleurs un des plus grands pantomines qu’l y eùt sur aucun theàtre. Tout se peignait sur son visage et dans ses gestes, et cette sorte d’expression, elle l’avait souvent sublime" (l. c, t. VIII, 1879, p. 148). - Ma una fiera delusione ebbe a provare l’autore quando la commedia fu recitata davanti alla Corte a Versailles, o, per usare il suo linguaggio, quando "fu scannata in tre quarti d’ora" perchè il Re doveva andare a cena (Mantovani, l. c., 226: la lettera è certamente dei 9 dicembre 1763, non ’64 come crede l’editore; Masi, l. c., 233. - In questo scenario recitò per la prima volta a Parigi nel 1766 la signora Rosa Brunelli Baccelli quale prima amorosa, insieme con la figlia: Rasi, I, 243 e 516; II, 724).
Abbiamo visto tante volte come il Goldoni studiasse con attenzione l’arte dei suoi interpreti, per ottenere un trionfo più sicuro. Lo scenario parigino non si adattava alla compagnia comica del teatro di S. Luca; perciò l’autore diceva subito dopo al Vendramin, nella lettera citata: "Penso di scriverla tutta di nuovo, cangiar le maschere in personaggi di carattere, e ridurla bene per il Teatro di V. E. Se si potesse conservar l’Arlecchino sarebbe bene, ma non so l’abilità di quello ch’Ella ha presentemente" (Mantovani, l. c, 203-204). E aggiungeva in altra del 17 gennaio ’64 a Stefano Sciugliaga: "Ne intrapresi il travaglio con un piacere grandissimo, ma impegnato nel lavoro, vi scopersi delle massime difficoltà, non già prodotte dall’opera stessa, ma dai riflessi che ho fatti sopra la Compagnia, sopra le Etichette Comiche, e sopra le inevitabili circostanze di dette Commedie". A chi affidare la parte dell’Arlecchino? a chi quella della servetta? "Tutti questi riflessi mi hanno cagionata una rivoluzione nell’animo, e ne ho abbandonata per quest’anno l’impresa" (ivi, 205-207). Finalmente, nell’ottobre di quello stesso anno 1764, gli amori di Zelinda e Lindoro arrivavano a Venezia e il Vendramin se ne rallegrava con l’amico di Goldoni, lo Sciugliaga; ma stabiliva "che sino a S. Martino non avessero a recitarsi" (ivi, 213 e 214) cioè sino al ritorno di molti Veneziani dalla villeggiatura. L’autore stesso aveva fatto "la distribuzione delle parti, in modo che