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454 | ATTO TERZO |
Barone. Non so che dire. Accetterò le vostre finezze. (Dove diavolo ha trovato questo ventaglio? Mi pare impossibile ch’egli l’abbia comprato). (guardandolo)
Conte. Ah, cosa dite? Non è una galanteria? Non è venuto a tempo? Oh, io in queste occasioni so quel che ci vuole. So prevedere. Ho una camera piena di queste galanterie per le donne. Orsù andiamo, non perdiamo tempo, (corre, e batte al palazzino.)
Tognino. (Sulla terrazza) Cosa comanda?
Conte. Si può riverire queste signore?
Tognino. La signora Geltruda è fuori di casa, e la signora Candida è nella sua camera che riposa.
Conte. Subito che si sveglia, avvisateci.
Tognino. Sarà servita. (via)
Conte. Avete sentito?
Barone. Bene, bisogna aspettare. Ho da scrivere una lettera a Milano, andrò a scriverla dallo speziale. Se volete venire anche voi?
Conte. No no, da colui vi vado mal volentieri. Andate a scrivere la vostra lettera, io resterò qui ad aspettare l’avviso del servitore.
Barone. Benissimo. Ad ogni cenno sarò con voi.
Conte. Fidatevi di me, e non dubitate.
Barone. (Ah, mi fido poco di lui, meno della zia, e meno ancora della nipote). (va dallo speziale)
Conte. Mi divertirò col mio libro; colla mia preziosa raccolta di favole meravigliose. (tira fuori il libro, e siede)
SCENA X.
Evaristo dalla casa di Giannina, e detto.
Evaristo. (Oh, eccolo ancora qui; dubitava ch’ei fosse partito. Non so come il sonno abbia potuto prendermi fra tante afflizioni. La stanchezza... la lassitudine... Ora mi par di rinascere. La speranza di ricuperar il ventaglio...) Signor Conte, la riverisco divotamente.