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son debitore, e soltanto leggendo voi ho conosciute ed amate le bellezze di questa lingua, e fattovi qualche progresso. Non intendo già farvi qui un inutile complimento; ho per mallevadore di mia sincerità M. di Voltaire, quegli che in Francia può giudicare meglio di tutte le cose. Scrive egli, in non so che parte, che facea imparar l’Italiano sulle vostre Commedie alla pro-nipote del gran Cornelio, la qual tiene appresso di sè, come vi è noto.

Del resto. Signore, la particolare stima che questo grand’uomo fa di voi e delle Opere vostre, le pubbliche testimonianze che ne ha dato in prosa e verso; i caratteri principali, e il fondamento, per così dire, delle vostre Commedie che gl’Autori nostri non sdegnano transportar ben sovente con successo sopra il Teatro Francese, l’accoglienza da noi ultimamente fatta a due delle vostre Commedie recitate successivamente sul Teatro Italiano, la prima i vostri Pettegolezzi, ridotta in Francese col titolo: Le Ciarle, e la seconda il vostro Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato, recitata in Italiano, le traduzioni di più altre, e l’ardore generale col quale son qui ricercate le vostre Commedie, tutto finalmente deve scacciar da voi quel timore che la modestia vostra nella vostra Lettera mi dimostra, e convincervi ben più di quello possa io dirvi, che voi non siete in verun conto straniero in Francia. Il vostro talento vi ci ha da lungo tempo naturalizzato, e niuna cosa potrà più farvi perdere una riputazione sì ben stabilita e sì giustamente fondata sopra un numero tanto prodigioso di eccellenti Commedie.

Ma supponendo ancora, che la Commedia che siete per dare in Parigi, non riesca come avrebbe fatto in Italia, non bisognerebbe per ciò nè disperarsene per l’avvenire, nè farsene maraviglia. Il Teatro pel qual voi scrivete, e quelli che lo frequentano, assuefatti non sono, per quello almen che riguarda la maniera Italiana, alla finezza, regolarità e condotta che voi tenete, a quali pregi avete saputo ricondurre i Teatri del Paese vostro (di cui il Teatro Italiano di Parigi è l’immagine in tal genere). Avete bandito da voi, come l’accenna ancora M. di Voltaire, le burlette insipide, e quelle villane sciocchezze che gli disonoravano, ma si ritengono ancora fra noi. Per l’infelice abito che noi abbiamo di ridere, forse le nostre orecchie e i nostri occhi non s’accomoderanno a questo Teatro immediatamente a un comico semplice, naturale, ragionevole, ma nobile e interessante, e spogliato di tutto quel risplendente apparecchio, che accompagna ben sovente alcune delle nostre Commedie Italiane.

Schiavi di queste insipidezze, noi lo siamo ancora delle maschere dalle quali vi ha liberato il vostro spirito. Le avete fatte dimenticare in Italia, ma senza esse sarebbono abbandonate in Francia le Commedie Italiane. E ben facile però di concepire, quanto quest’antico e ridicolo costume abbia recato di nocumento all’arte dell’Attore, e a piacere dello Spettatore1. Se l’Anima è la sede delle Passioni, la faccia ne è il quadro, e le sue espressioni sono sempre più vere, più eloquenti e più pronte, che quelle della voce e del gesto. Quanto più essere può tenuta alla scoperta, tanto più l’Attore che abbia spinto ha mezzi a render verisimili le sue situazioni, e d’ingombrarne lo Spettatore. Interroghiamo su questo i nostri gran Tragici, i Lekain, i Brizard. S’intenderà ben da essi come fremano, quando la legge del costume gli constringe a portare

  1. Così l’ed. Pasquali.