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318 | L'AMORE PATERNO |
Arlecchino. Possa cascar la testa a sior Pantalon.
Camilla. Cosa ti ha fatto signor Pantalone?
Arlecchino. Noi m’ha fatto niente: no ghe voggio mal, ma in sta casa mi no lo posso soffrir. Per el magnar, pazenzia. I xe in quattro, i te costerà assae, ma pasenzia; ma se t’ho da sposar, se ho da vegnir in sta casa, mi no vôi nissun. Ti sa el mio temperamento, mi no vôi nissun. Pantalon; do fiole, una predica, l’altra canta; vien della zente, i fa conversazion. Gh’è quel maledetto Scapin. In somma, fin che xe in casa sta zente, mi no ghe voi più vegnir.
Camilla. Ma possibile che io non abbia tanto potere?...
Arlecchino. Vien zente. No vôi sentir altre istorie. Pénseghe suso, e se vederemo. (parte)
SCENA III.
Camilla sola.
Per una parte ha ragione. Mi ha parlato in una maniera, ch’io sono quasi convinta. Io credo che a quest’ora ogni altra donna avrebbe licenziato il signor Pantalone, e pure son così tenera, sono così impegnata, che ci ho ancora della difficoltà.
SCENA IV.
Pantalone, Clarice, Angelica, Celio, Silvio, Florindo, Petronio e Camilla.
Pantalone. Vegnì vegnì, fie mie. (a Clarice ed Angelica) No gh’è bisogno de altri discorsi. Avemo sentio tanto che basta.
Camilla. Ah signor Pantalone! Arlecchino ha fissato il chiodo. Non vi è rimedio.
Pantalone. Savemo tutto. Compatì se la passion m’ha fatto commetter un azion un poco troppo avanzada. Ho ascoltà, ho sentio. Mi son persuaso, le mie putte xe persuase, e bisogna andar.