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L'OSTERIA DELLA POSTA 253

Conte. Attendetemi, e ve lo proverò colla spada. (in atto di andare alla sua camera)

SCENA X.

La Contessa e detti.

Contessa. Ah, padre, trattenetevi per amor del cielo. (al Conte)

Conte. Ah, figlia ingrata! Ecco svelato il gran mistero delle tue renitenze. Ecco chi ti anima ad una scorretta disobbedienza. Ecco l’oggetto delle tue fiamme, che ti fa odiare l’immagine d’ogni altro sposo. (accennando il Barone)

Barone. (Ah volesse il cielo, ch’egli dicesse la verità).

Contessa. No, signor, v’ingannate. Niuno ha ardito di consigliarmi, nè io sono sì docile per lasciarmi vincere e persuadere. Il mio cuore è ancor libero, ed amo tanto questa mia libertà, che ardisco di contrapporla a chi mi ha dato la vita. Niuno più di voi, signore, ha il diritto di comandarmi, e sarei disposta a ciecamente obbedirvi, quando non si trattasse di un sagrifizio sì grande, sì incerto e pericoloso.

Barone. (Eppure io mi lusingo ancora che ella mi ami).

Conte. (Vo’ assicurarmi s’ella è sincera, o se finge e m’inganna). Tu temi adunque, che il marchese Leonardo possa spiacerti.

Contessa. E non è irragionevole il mio timore?

Conte. E s’ei non è di tuo genio, sei risoluta di non volerlo?

Contessa. Perdonatemi, per carità...

Conte. Oh via, non vo’ che tu mi creda così tiranno, ch’io voglia violentare il tuo cuore, e renderti sfortunata per sempre. Sperai, togliendoti da Milano, vederti più rassegnata, temei che un segreto amor ti accendesse; ti credo libera, ti veggio nel tuo pensiere costante; penso di non arrischiare il mio decoro in Torino. Torniamo dunque a Milano. Troverò io la maniera di sciogliere il contratto col marchese Leonardo, e ti porrò nella tua pienissima libertà. Tu vedi per altro, che non mancheranno al paese nostro le critiche e le mormorazioni.