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loro amori. Tutto ciò, aggiunto alla pittura del sistema e del costume di quel ceto di persone, che ho introdotte in quest’opera, basta, mi pare, per dar materia ad una Commedia, anche senza il merito dell’allegoria.
Vi ho introdotto, per adornarla, il giuoco detto della Meneghella, giuoco di carte particolar di Venezia, che non giuocasi in altre parti, e serve di trattenimento alle Società che si trovano numerose e si compiacciono di giuocar tutti insieme, potendo giuocare fino in sedici, alla stessa tavola, e nella medesima compagnia. Come la scena, in cui giuocano i miei personaggi, è lunga, ed i termini di cui si servono non possono essere compresi da quelli che non conoscono un simil giuoco, m’ingegnerò di darne un’idea; e non credo la fatica inutile, facendo conoscere il giuoco favorito delle belle giovani veneziane.
Principiando dall’etimologia del nome, dirò che Menega in Veneziano vuol dir Domenica e Meneghella è il diminutivo, come chi dicesse Domenichella, o Domenichina. La carta che chiamasi la Meneghella, è il due di spade. Quei che conoscono le carte italiane, sapranno che i quattro Semi che le compongono formano: Spade, Coppe, Bastoni e Danari. Le figure di questi Semi variano secondo i paesi. Le Spade, per esempio, in varie parti sono impresse diritte, ed in Venezia ritorte, a guisa di sciable. Il due di Spade è composto di due di queste sciable, che incrocicchiando le guardie e le punte, formano un ovale nel mezzo, nel cui vacuo vi è scritto il nome del fabbricatore, ed ordinariamente vi si legge: Messer Domenico Cartoler, all’Insegna della Perletta.
Io credo che il nome di Domenico abbia dato il nome di Domenichina, o Domenichella, e in veneziano di Meneghella: almeno questa etimologia è molto più onesta di quella che alcuni libertini ritrar pretendono dalla figura. Questa dunque è la carta trionfante, la carta superiore di questo giuoco; e dopo di essa gli Assi, i Cavalli, i Fanti, i Dieci, i Nove ecc. impiegandosi tutte le cinquantadue carte che formano il mazzo. I Giuocatori si distribuiscono a due per due, i quali devono esser vicini, veggendosi le carte fra di loro, e facendo banco comune di quel danaro che