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La verità e la snellezza del dialogo si dichiarano per sè; le scene si succedono con la più felice evidenza. Il terzetto per esempio, per dirla in linguaggio musicale, tra Meneghina, Anzoletto e quel rompiscatole di Fabrizio (I, 6); il quartetto tra la sdegnosa Cecilia, l’altro ficcanaso del conte suo servente, la Lucietta e Sgualdo il tappezziere (I, I); il terzetto tra Cecilia. Meneghina ed il conte (I, 14); il duetto tra Checca e Rosina, le due modeste e brave massaie del piano superiore (II, I); e tutto il resto del secondo atto, ma particolarmente la scena tra queste ultime e la Cecilia che sparla della cognata attaccatasi «con un sporco che no gh’ha ne arte nè parte, certo Lorenzin Bigoletti, un scagazzer, un spuzzetta, senza roba ne civiltà» ignorando che Lorenzin è loro cugino, ond’esse rintuzzano fieramente che il giovanotto è invece ben nato e bene allevato; sono tutti dialoghi che hanno in sè tale virtù da parervi pittura parlante, o meglio poesia e musica insieme. Stupenda è inoltre la scena tra Checca, Rosina e il vecchio Cristofolo (III, 3); e non meno raffinata l’altra tra lo stesso Cristofolo e la Cecilia (III, 13) in cui è lo scioglimento della commedia, che ricorda (nota a ragione il Masi, op. cit.) quello dei Rusteghi, in cui siora Felice ha gli stessi impeti, gli stessi ardimenti, la medesima eloquenza della Cecilia, e il vecchio Cristofolo cede alle parole di costei come a quelle della Felice il rustico Lunardo.

Nessuna meraviglia perciò che la Casa nova di cui Goldoni ci stende nelle Memorie (cap. cit.) la tela, sia stata ricevuta, ripetiamo con l’autore, «con estremo piacere»; che abbia «chiuse le rappresentazioni autunnali» e siasi «sempre sostenuta nella classe di quelle composizioni che hanno un costante incontro, e che nel teatro compariscono sempre nuove» (ibid.). Ma ascoltiamo in proposito un autorevole critico contemporaneo, Gaspare Gozzi se pur non è d’altra penna, come dubita il Tommaseo; «La maestria con cui è condotta, la rende interessante da capo a fondo; e tante sono le grazie del dialogo, e la vivacità degl’inaspettati colpi teatrali, che lascia desiderio di rivederla. I caratteri sono così pieni di verità, che non par di essere ad una rappresentazione, ma presenti ad un fatto vero.... (Gazz. ven. cit.). Il Meneghezzi (Della vita e op. di C. G., p. 526) e il Ciampi (La vita artuist. di C. G., p. 71) la lodano; ma non crediamo con loro che il pentimento della Cecilia sia sincero; ella usa con lo zio dello sposo, il suo più dichiarato nemico, di quella umiltà, di que’ modi che ne’ suoi frangenti si convengono, perchè costrettavi dal bisogno, non già perchè riconosca finalmente essere lei medesima la precipua cagione delle domestiche disavventure. Il Galanti stima la produzione fra le più gaie del nostro autore, dove trae grandi effetti e dipinge quadri che ora si direbbero di genere, con una vivacità magistrale (C. G. e Venezia nel sec. XVIII, p. 249); per Giulio Caprin, nonostante la materia che Carlo Gozzi dispregiava come «triviale», è tra le commedie impareggiabili di verità umana ed artistica (C. G. La sua vita e le sue opere p. 169); la giudica il nostro Ortolani «ricca d’intreccio, di dialogo, di caratteri, mirabile di costruzione» (Della vita e dell’arte di C. G., p. 114); anche pel Rabany «è una delle migliori commedie veneziane di Goldoni» (C. G. Le Théatre el la vie en Italie p. 371).

Curioso a dirsi, la Casa nova non trovò la consueta fortuna a Brescia la sera del 2 aprile 1843, quantunque rappresentata da un’eccellente compagnia, quella Ducale di Parma, diretta dal Mascherpa; onde anzi un buon veneziano che vi assisteva, Petronio Maria Canali, protestò fieramente in una corrispon-