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rattere, se anche povere di comicità e di scarso interesse nella situazione» (Royer, Hist. univ, d. Théâtre, IV, Paris. 1870, p. 292). Ma i più non conobbero pietà. «Le donne colte e spiritose gli vengono male, - osserva il Jacobs - hanno tutte una forte tinta di pedanteria e di ridicola preziosità». Giulia «non è che una faccendiera che ficca il suo naso dappertutto e già per questo è intollerabile» (Charaktere der Vomehmsten Dichter ecc., Leipzig, 1793, vol. Il, p. 72). «È abbastanza noto - avverte C. H. Schmid - che la D. d. m., l’Avvocato veneziano e la Figlia obbediente sono tra le più noiose commedie del Goldoni» (Das Parterre, Erfurt, 1771, p. 134). Ai suoi connazionali fa eco il Mathar: «L’esagerato interesse della Donna di maneggio per faccende che in verità non la toccano molto, la facilità con cui si mercanteggiano affetti, la mutevolezza dei caratteri fanno di questa commedia uno de’ prodotti più fiacchi dello scrittore veneziano» (C. G. auf dem deutschen Theater des XVIII Jahrh., Montjoie, 1910, p. 200). Non satira, ma solo una lezione di morale, scorge in questo lavoro il Rabany, e non gli pare esatta la traduzione francese del titolo nelle Memorie. Une femme de tête, invece che, une femme d’importance rendeva meglio, a creder suo, il concetto dell’autore (op. cit., p. 368). Nella sua traduzione francese del titolo il Toldo ne fece senza più una Femme intrigante (op. cit., p. 377). Ma lo stesso titolo originale, perchè poco chiaro, risponde male al concetto dell’autore. Volle precisare meglio la Compagnia del Duca di Modena e chiamo il lavoro La faccendiera, titolo che se definisce la protagonista qual è, certo non ne accarezza la vanità.
Anche Alfredo Corbellini deplora che il Goldoni rappresentasse «femmine sdottoreggianti e sputasentenze» come la Donna di garbo e la Donna di maneggio senza intenzione di satira, ma «con seria approvazione» e «industriandosi di comunicarci la sua ammirazione» (Il Collegio delle Marionette, Archivio storico lombardo, Milano, 1911, p. 54). E il Momigliano: «I tipi seri per lo più non gli riescono», particolarmente nei «tentativi di rappresentar la donna che è la salvezza d’una casa o d’una persona: è una donna che parla e opera e non sente, ma predica, predica molto e rileva continuamente colle massime quel che fa, e quindi, senz’accorgersene, si loda uggiosamente: tale e, per es., la donna di maneggio» (I limiti dell’arte goldoniana, Miscellanea Renier, 1913, p. 88). Ma pur le buone cose che la commedia vorrebbe insegnare, nota Pietro Schedoni, son tutt’altro che buone. Gli pare che Giulia faccia tutto il contrario di ciò che s’attende da una moglie saggia, da una brava padrona di casa, da una donna che s’impaccia di matrimoni (Principi morali, Modena, 1828, p. 56). Ernesto Masi definisce la protagonista «una presidentessa di comitati di beneficenza dei giorni nostri» (Sulla storia del teatro italiano nel secolo XVIII. Firenze, 1891, p. 270) e Adolfo Albertazzi, in caccia di casi patologici nel teatro del Nostro, non iscorge in tutto il suo contegno che «una fissazione» (Patologia Goldoniana, Flegrea, 1899, 20 maggio, p. 130).
Benchè poco avventurata ne’ suoi primi passi, questa commedia, raccolta tutta intorno alla figura principale, allettò l’ambizione di qualche attrice e tenne così abbastanza a lungo il palcoscenico. In quale rifacimento la recitassero nel carnovale del 1783 gli animosi collegiali di S. Carlo a Modena non sappiamo (Gandini, Cronistoria ecc., Modena, 1873, voi. II, p. 213). Nella prima metà