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«Disè benissimo; specialmente da mi e da vu che no ghe lassemo la brena sul collo come mio compare Canzian». Per quanti castighi però ripensino, non sanno decidersi per alcuno; chi riesce finalmente con la sua irresistibile parlantina a domarli e ad ottenere che Filipetto sposi la sua Lucietta è la Felice «il Deus ex machina» (scrive a ragione il Masi nella nota cit.) di tutta la commedia. La brava donna principia col rinfacciare ai nostri tiranni domestici la loro rusticaggine per cui vengono considerati dalle loro mogli non già mariti, ma «tartari, orsi, aguzzini. Poi viene al fatto: il signor Lunardo ha da maritar la figliuola, ma piacciale o non piacciale, non l’ha da vedere prima delle nozze, deve prenderlo a ogni costo». «Ma el putto xe un putto de sesto, el xe bon, el xe zovene, no ’l xe bruto, el ghe piaserà. Seu seguro, vegnimo a dir el merito, ch’el gabia da piàser? e se no ’l ghe piasesse?»... «Sior sì, avemo fato ben a far che i se veda. Vostra mugier lo desiderava, ma no la gaveva coragio. Siora Manna a mi s’ha racomandà. Mi ho trovà l’invenzion de la maschera, mi ho pregà el forestier. I s’ha visto, i s’ha piasso, i xe contenti. Vu dovaressi esser più quieto, più consolà. Xe compatibile vostra mugier, merita lode siora Marina. Mi ho operà per bon cuor. Se sè omeni, persuadeve; se sè tangheri, sodisfeve. La puta xe onesta, el puto no ha falà, nu altre semo done d’onor. Ho fenio l’arenga; laude el matrimonio, e compatì l’avocato». I rusteghi ne rimangono scossi; non sanno che rispondere; e bisogna convenirne, la causa non poteva essere affidata a miglior difensore, sia pure in gonnella.

Se dovessimo ora registrare tutte le recite nelle varie città italiane di questi Rusteghi sempre piaciuti e piacenti, staremmo freschi. Contentatevi di quelle datesi a Venezia, notando però prima con Luigi Rasi che la parte di Filipetto ebbe brillanti interpreti non solo in attori di compagnie goldoniane, ma in Amilcare Belotti (Com. ital. I, 339), in Domenico Alberti (Il Barbiere di Siviglia, Milano 11 genn. 1834) in Alamanno Morelli (Rasi Com. ital. II, p. 155) e in Edoardo Scarpetta (ibid., p. 524); e che quella di Lunardo n’ebbe di eccellenti in F. A. Bon, in Luigi Duse, Antonio Papadopoli, G. B. Zoppetti, Angelo Morolin, Luigi Covi, Guglielmo Privato, e sarebbe superfluo ricordarlo, nel Bennii e nello Zago.

La commedia dunque venne rappresentata per la prima volta in Venezia al S. Luca il 16 febbr. 1760 col titolo: La Compagnia dei Salvadeghi o sia I Rusteghi, e ridata per tre sere consecutive. A proposito dei due noti intercalari di Lunardo e di Margherita racconta Gaspare Gozzi nel cit. numero della Gazzetta Veneta (20 febbr. I 760. n. 5) un grazioso casetto. Discorrendosi in una conversazione di tali superfluità del discorso «cadde in animo ad un bello spinto di quel circolo d’invitare a cena otto persone fra uomini e donne che avessero questo vezzo...» Quando si riunirono «fu nel principio un bell’udire ogni ragionamento ricamato con queste ripetizioni vuote: osservela, no so se me spiega, me capissela, la se figura, el forte è questo, alle quante lo vustu, e simili altri delizie. Andando avanti, ognuno in suo cuore notava il difetto dei compagni, poi si fece coscienza del suo proprio, tanto che per vergogna si parlava poco per non urtare nell’amica parola; e stavano mutili. Ma una signora, stanca forse di tacere e più spiritosa degli altri balzò in piedi e disse: Amici, qui si tace, e io so il perchè. In un momento